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Questo articolo è stato pubblicato il 01 febbraio 2013 alle ore 07:08.

Forse non tutti se lo ricordano; ma nel luglio 2008, a due mesi dal crac di Lehman Brothers, con un euro si acquistavano 1,6 dollari. Si tratta del massimo di tutti i tempi, praticamente il 100% in più rispetto al minimo di 0,825 toccato il 26 ottobre 2000, poco dopo la sua introduzione nel circuito interbancario e poco prima della sua introduzione come moneta (2002).

Questa mattina l'euro viaggia oltre 1,36 dollari (cambio euro/dollaro e convertitore di valute). Da luglio (quotava 1,21 dollari) la divisa del Vecchio Continente si è apprezzata del 13% nei confronti del biglietto verde e del 10% sullo yen (da 111 a 123).

Come mai? A questa fluttazione possono aver contribuito sicuramente le dichiarazioni rilasciate dal governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi che, non a caso luglio, ha varato lo scudo anti-spread indicando che 1) «l'euro è irreversibile»; 2) «la Bce farà tutto il necessario per difenderlo»; 3) «e vi assicuro che sarà abbastanza».

Da allora la valuta europea ha cominciato ad apprezzarsi (grafico effetto-Draghi sul cambio euro/dollaro) e lo spread tra BTp-Bund ha perso quote a mani basse scivolando da 550 a 250 punti (oggi passa a 260). Ma non c'è stato solo Draghi. Nel mezzo ci sono state anche nuove iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve (che ha annunciato che stamperà 85 miliardi di dollari al mese per un tempo indefinito fino a quando non ci saranno chiari segnali di ripresa) e della Banca del Giappone (BoJ) che proprio nelle scorse settimane ha annunciato un nuovo piano di quantitative easing per frenare la corsa dello yen e uscire dalla deflazione ponendosi come obiettivo un'inflazione al 2% (stessa soglia della Bce). Allo stesso tempo la BoJ ha annunciato che acquisterà titoli del fondo europeo salva-Stati. In pratica stampa yen e compra euro. Quindi non solo aumenta l'offerta di yen (causandone quindi una svalutazione) ma diminuisce quella di euro (acquistandoli) contribuendo ulteriormente a far arrabbiare la Germania e a rivalutare l'euro. Che di questo passo acquista tutti i crismi per vestire la corona di super-euro (sabato 2 febbraio su Plus24 uno speciale dedicato a "Risparmio e valute: gli strumenti per investire).

Anche per questo motivo, quindi, l'euro è in salita e, secondo alcuni analisti potrebbe presto arrivare a quota 1,4, una soglia che sarebbe preoccupante per le imprese dell'area euro con una forte propensione alle esportazioni e che finirebbe per rovinare anche l'atmosfera in Germania, l'unico tra i Paesi big dell'area che finora ha beneficiato del cambio rigido.

Un euro forte, quindi, non fa bene al Pil (perché puntella al ribasso la bilancia dei pagamenti e la capacità delle imprese di domandare investimenti fissi, due dei quattro elementi della formula del prodotto interno lordo, oltre a consumi e spesa pubblica).

Dato che però la macroeconomia è, spesso, una partita doppia, il battito di ali di una farfalla (l'aumento dell'euro nella metafora) ha due effetti contrapposti. Frena imprese e Pil ma rende decisamente più convenienti le importazioni (in teoria) e gli acquisti effettuati in Paesi che utilizzano monete svalutate rispetto alla divisa unica. E qui vengono subito in mente gli Stati Uniti, patria indiscussa dei consumi e della filosofia del consumo ciclico.

Con un euro forte volare, soggiornare e fare shopping negli Usa (e in tutti i Paesi che utilizzano il dollaro come valuta primaria o secondaria), costa molto meno. Come visto, il 13% in meno rispetto alla scorsa estate. Quindi, per chi sta pensando di prenotare vacanze per questa estate la recente rivalutazione dell'euro rappresenta senz'altro una buona notizia.

E qui, però, viste dal lato Italia finiscono le buone notizie. Perché ciò vorrebbe dire sottrarre una quota di consumi interni (che fanno crescere il Pil) dando invece una mano ai consumi e al Pil degli Usa. Inoltre, con un euro forte il prezzo del petrolio tende a crescere (perché è una materia prima scambiata in dollari, quindi se il biglietto verde si svaluta ne occorrono algebricamente di più per acquistare una stessa quantità di barili). Ecco perché spesso il rialzo dell'euro (che a livello teorico rende più favorevoli le importazioni) finisce per appesantire anche i costi per le importazioni di materie prime che (essendo quotate in dollari) vedono crescere il loro prezzo. Se questo cresce di pari passo rispetto alla rivalutazione dell'euro difatti l'effetto si neutralizza. Ma se invece il rialzo del prezzo viene anche alimentato da logiche speculative (quindi se il petrolio si apprezza più di quanto si apprezzi l'euro sul dollaro) allora ciò avrebbe un ulteriore contraccolpo sulla bilancia dei pagamenti.

In ogni caso, il rialzo del prezzo del petrolio impatta direttamente sul costo della benzina e quindi sui consumi degli italiani che tendono a frenare proprio a causa del fatto che una parte del bilancio famigliare viene erosa dal costo del carburante e non può andare a finire altrove, da qualche altra parte nell'economia reale. Non solo, il rialzo del prezzo della benzina fa aumentare l'inflazione importata.

Quindi, al di là di vacanze e shopping all'estero, avere un super-euro non pare poì così un gran vantaggio ma piuttosto una battaglia persa nella guerra delle valute. Una vittoria di Pirro.

twitter.com/vitolops

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