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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2013 alle ore 12:41.

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Per Tommaso Federici, responsabile gestioni di Banca Ifigest, «se il mercato dovesse prezzare entrambi i punti sollevati da Grillo credo proprio che supereremo i livelli di stress e di spread toccati a novembre del 2011. Rispetto al 2011 infatti non possiamo certo giocarci la sorpresa positiva di un governo tecnico né di una Bce molto accomodante, come lo è stata quella di Mario Draghi con la "rete" Omt. La fase politica italiana che si sta aprendo sarà determinante per il Paese e per l'Europa».

In caso di uscita dall'euro - argomenta Edoardo Chiozzi Millelire, responsabile per l'Italia Convictions AM «le azioni rivedranno i livelli peggiori del 2011. Soffriranno soprattutto quelle delle banche, che difficilmente riuscirebbero a reggere un tale urto e rischierebbero di fallire "en masse" per essere poi nazionalizzate».

In soldoni, seppur con impatti differenti, analisti e operatori di mercato convergono con il fatto che l'ipotesi di un' "Italyexit" avrebbe una ricaduta finanziaria fortemente negativa, sia analizzando il fantomatico spread che il principale indice di Piazza Affari.

Nell'arena del dibattito cresce però il numero di economisti che si concentrano sull'economia reale e intravedono nella svalutazione competitiva che seguirebbe a un' "Italyexit" un vantaggio per il recupero di produttività delle imprese del BelPaese, assecondando quanto dichiarato già nel 1998 da Paul Krugman (che nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l'Economia) che definì l'euro un errore. Da allora, non ha cambiato idea e lo scorso luglio ha indicato che l'euro ha solo il 40% di possibilità di sopravvivenza».

Su posizioni simili Joseph Stiglitz, altro premio Nobel per l'economia (2001) che a fine 2012, condannando le politiche di austerità, ha dichiarato che la fine dell'euro non sarebbe la fine del mondo. Il partito degli scettici sottolinea il fatto che l'Europa attualmente è più un'unione di cambio (con 17 Paesi vincolati da un cambio valutario rigido) ma non un'unione monetaria (il debito non è unificato così come le politiche fiscali e di lavoro). Per questo motivo più che alimentare una crescita sinergica dei vari Paesi l'imposizione di un cambio rigido su economie differenti diventa un boomerang per le economie più deboli, quelle che hanno rivalutato la rispettiva valuta con l'ingresso nell'euro.

Seppur in netta minoranza rispetto al parere prevalente tra i gestori, anche in questo ambito c'è chi non drammatizza. «Un'uscita dall'euro farebbe scendere rovinosamente il listino in una prima fase ma poi la probabile svalutazione determinata oggettivamente dai differenziali di inflazione con la Germania, calcolabile intorno al 10-15% - spiega Gabriele Roghi, responsabile gestioni patrimoniali di InvestBanca - darebbe enorme slancio alle esportazioni con conseguente effetto propellente al listino azionario italiano».

L'unica certezza è che c'è tanta confusione e che gli addetti ai lavori sono profondamente divisi. Mentre il dibattito resta apertissimo la speranza è che, euro o non euro, le politiche dei governi siano presto in grado di raddrizzare la situazione perché i 19 milioni di disoccupati in Europa (praticamente quanto l'intera Olanda), e livelli di disoccupazione giovanile fino al 50% sono un problema reale. Da affrontare subito.

twitter.com/vitolops

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