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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2013 alle ore 19:49.
New York – L'ultima innovazione di Apple non riguarda l'iPhone o l'iPad. Apple ha scoperto le società apolidi: non hanno sede fiscale da nessuna parte, quindi il loro reddito non è tassato da alcuno stato al mondo. E' in questo modo che la società di Cupertino avrebbe, del tutto legalmente, evitato di dover pagare imposte su 44 miliardi di dollari di profitti. E, quando si contano gli utili su cui ha versato tasse estremamente basse, il totale salirebbe ad almeno 74 miliardi in quattro anni.
Il "meccanismo" è stato messo in luce da un rapporto del Senato americano, più precisamente della sua Sottocommisione permanente d'inchiesta. Che ieri ha chiamato il chief exeucutive dell'azienda, Tim Cook a renderne conto in aula. Un meccanismo che conta su vuoti nell'incrocio tra la legislazione americana e irlandese: le divisioni internazionali di Apple, alle quali fanno capo le attività in Europa, Medio Oriente, India, Africa e Asia, hanno sede a Cork in Irlanda. Ma per Dublino sono effettivamente "controllate a gestite" dal quartier generale negli Stati Uniti, quindi ai loro fini non vanno tassate localmente. Peccato però che per gli Stati Uniti il loro reddito sia generato all'estero, quindi la tassazione americana può essere differita fintanto che i capitali restano fuori dai confini.
Risultato: la colossale divisione Apple Operations International dal 2009 al 2012 ha intascato 30 miliardi ma non ha dichiarato alcun dimicilio fiscale e in cinque anni non ha mai neppure presentato una dichiarazione dei redditi. Una seconda divisione, la Apple Sales International, avrebbe pagato un'aliquota effettiva pari allo 0,5 per cento. Gli inquirenti del Congresso hanno parlato apertamente di un ricorso ad "alchemia" fiscale e ad "aziende fantasma" da parte di Apple.
Cook, coadiuvato dal direttore finanziario Peter Oppenheimer, si è difeso a spada tratta durante la lunga audizione, dominata dalle aggressive domande dei senatori Carl Levin, democratico, e John McCain, repubblicano. Levin ha denuciato che "Apple ha sfruttato un'assurdità che non abbiamo visto altre aziende utilizzare". Ma il chief executive di Apple ha contrattaccato chiedendo piuttosto una riforma del sistema fiscale per le aziende che permatta di rimpatriare capitali senza pagare un'aliquota considerata punitive e pari oggi al 35 per cento. Cook ha proposto un'aliquota inferiore al 10% per rimpatriare profitti e essere competitivi con altri paesi.
L'amministratore delegato ha anche assicurato che Apple ha sempre pagato tutte le imposte dovute negli Stati Uniti, sei miliardi sdi imposte sul reddito nel 2012. Anzi ha affermato di ritenere che Apple sia il principale contribuente aziendale all'erario americano: ha calcolato di essere responsabile del versamento di un dollaro ogni 40 di gettito fiscale della Corporate America.
Senza contare le migliaia di posti di lavoro che ha creato sostenendo l'economia del Paese. La divisione irlandese, a suo avviso, è semplicemente un modo per gestire efficacemente contanti già tassati altrove.
Le mosse fiscali di Apple hanno destato scalpore, ma non sono isolate. Nella polemica su riforma fiscale e elusione delle tasse altre aziende hi-tech americane sono finite di recente nel mirino del Congresso, tra queste la Hewlett-Packard e la Microsoft. La prima è stata criticata per aver rimpatriato surretiziamente profitti, facendoli passare per prestiti esentasse delle controllate alla casa madre. La seconda per il trasferimento "di comodo" offshore di redditizie proprietà intellettuale.
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