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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2013 alle ore 19:51.

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Ecco perché la Fed non deluderà i mercati

Quello che s'aspettano gli operatori dal Fomc di questa sera è sentirsi rassicurati. Vorrebbero che Ben Bernanke dicesse loro che i tempi della exit strategy, ossia l'inizio di una politica monetaria meno espansiva, non sono ancora maturi e soprattutto che l'attuale quantitative easing da 85 miliardi di $ al mese continuerà fino a quando lo richiederanno le condizioni economiche. Quello che s'aspetta il vasto pubblico degli osservatori è che Bernanke prenda una decisione, in un senso o nell'altro, poiché questa incertezza e in particolare il modo con cui i mercati stanno strumentalizzando questa paura sta diventando davvero stucchevole. È tuttavia probabile che dal presidente della Fed arrivi davvero un messaggio tranquillizzante: perché la banca centrale è sensibile al ricatto degli operatori, e si sa che l'effetto ricchezza trasmesso dalla Borsa e dalle obbligazioni in qualche modo fa bene anche all'economia, e perché l'inflazione cresce molto meno delle attese.

Per meglio comprendere i tormenti degli operatori occorre fare un brevissimo excursus storico. Il presente è il terzo quantitative easing (QE) e si può dire che quasi tutto il rialzo di Wall Street, iniziato nel marzo 2009, e tutta la crescita dei titoli di Stato (dal giugno 2009, quando il Treasury decennale rendeva il 4%) siano stati accompagnati e propiziati dai tassi a zero e dalla non convenzionale politica monetaria della Fed. Per avere un'idea di quel che potrebbe succedere se cambiasse questa politica, ci soccorre quanto avvenne tra l'ottobre del 1993 e il novembre 1994: poiché, quando Alan Greenspan ventilò, dapprima, e attuò, in seguito, il rialzo dei tassi d'interesse, il rendimento del Treasury volò dal 5 all'8% e l'S&P perse tra gennaio e aprile il 9%. E allora s'era trattato di mutare semplicemente direzione ai tassi e non di cessare i QE, la cui droga non era ancora in voga come oggi.

Se si pensa che Wall Street è cresciuta da inizio anno fino a un massimo del 17% (e, dopo tutti gli sbandierati timori è sotto dell'1% da quei massimi), con gli utili aziendali poco meno che stagnanti e con l'economia americana e internazionale in decelerazione, la Borsa avrebbe davvero motivo per preoccuparsi. E se si pensa che i titoli di Stato rendono, dopo un mese di vendite, il 2,18%, ossia non coprono nemmeno l'inflazione attesa per i prossimi 5 anni stimata (indice del Michigan) oltre il 3%, si può immaginare quale bagno di sangue sarebbe se i rendimenti di lungo periodo salissero fino al 5%, un livello normale in mercati non manipolati dalle banche centrali.

Quali parametri la Fed tiene sotto controllo per decidere la politica monetaria? Due essenzialmente: l'inflazione e la disoccupazione. Il primo (inflazione scesa all'1,4 e all'1,7% quella core, quando l'obiettivo era il 2%) suggerirebbe di continuare con il QE; il secondo (tasso di disoccupazione al 7,6%, mentre l'obiettivo è al 6,5%) suggerisce di insistere con le misure non convenzionali. Il guaio è che tassi zero ad oltranza finiscono per creare danni ai risparmiatori (soprattutto ai fondi pensione), riducono la redditività delle banche e incentivano gli investitori ad assumere rischi eccessivi. E il guaio aggiuntivo dei QE è di gonfiare le valutazioni delle varie attività finanziarie, fino al punto da creare bolle speculative, con gli effetti distruttivi visti 5-6 anni fa. Nel settore del credito questo rischio è più che concreto e la correzione di maggio, innescata proprio dall'incertezza sulle future mosse della Fed, è stata salutare.

Le decisioni della Fed si profilano dunque assai delicate. Anche a prescindere dall'inflazione, non si può dire che l'economia americana vada male, benché i ritmi di crescita (attorno al 2%) siano la metà di quelli scanditi nelle precedenti fase espansive. Si direbbe che l'economia Usa, come quelle del mondo avanzato, sia entrata da qualche anno in una fase di strutturale debolezza, aggravata negli ultimi mesi pure dal rallentamento della crescita nei Paesi emergenti. E l'obiettivo di riportare il tasso di disoccupazione (che sottostima di gran lunga le persone senza lavoro, scoraggiate o semplicemente sotto occupate) al 6% potrebbe essere compito assai arduo nel medio periodo. In questo contesto i QE dovrebbero essere eterni, ammesso che davvero l'acquisto di titoli di Stato o di obbligazioni facciano bene all'economia reale e non solo a Wall Street: cosa che parecchi economisti mettono in serio dubbio.

E non è nemmeno detto che un dollaro debole, in conseguenza dei QE, faccia bene a un Paese come l'America, dove l'importazione di materie prime, energia e prodotti è assai elevata e dove l'export non è così determinate, data la perfetta internazionalizzazione delle maggiori aziende. Il messaggio che Bernanke, alle 20 di stasera, cercherà dunque di comunicare ai mercati sarà probabilmente condizionato da una estrema prudenza. Dovrà far capire che la politica monetaria non è prossima a una svolta ma anche trasmettere la consapevolezza che le misure non convenzionali non possono essere per sempre. Sarebbe quello che s'aspettano i mercati, come hanno dimostrato ieri il rialzo di Wall Street e l'ulteriore indebolimento del dollaro.

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