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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2013 alle ore 13:42.

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Rispettare i parametri di Maastricht? In tempo di crisi sembra impossibile. Solo la Corea del Sud ci riuscirebbe - Il confronto tra Paesi

Per rispettare i parametri fissati nel 1993 (a Maastricht), ribaditi e aggiornati nel 2007 (a Lisbona) e sanciti nel 2012 (con il patto di bilancio europeo, meglio noto come Fiscal compact) i Paesi dell'Unione europea (chi più chi meno) stanno facendo da tempo i compiti a casa. Compiti che sono stati chiesti anche durante le fasi più acute della recessione in corso, aggravando in un circolo vizioso i bilanci pubblici. Sullo sfondo previsioni ottimistiche sul moltiplicatore fiscale (che misura quanto cala il Pil a fronte di un taglio della spesa pubblica o di un aumento delle tasse) secondo i quali un'asterity di 1 avrebbe comportato danni al Pil di 0,5. I calcoli si sono rivelati sbagliati e i danni al Pil sono stati più che proporzionali rispetto all'entità dei compiti a casa (fino a un massimo di 1,7, quindi a un'austerity di 1 ha fatto seguito un calo del Pil di 1,7).

Detto ciò, tra abbuoni e bonus (l'Ue ha dato tempo a Francia, Spagna e Olanda di rientrare dal deficit/Pil sotto il 3% entro il 2014) i vincoli restano, e come. I più importanti sono quello sul debito/Pil che non deve esondare la soglia del 60% e quello sul deficit/Pil che non può superare il 3% in un logica di vertere al pareggio di bilancio (introdotto dall'Italia il 18 aprile 2012 quando a larga maggioranza parlamentare trasversale è stato approvato il disegno di legge che ha modificato l'articolo 81 della Costituzione). E poi c'è l'obiettivo della Banca centrale europea di tenere a bada l'inflazione entro e non oltre il 2% (il cosiddetto inflation targeting).

Il Fiscal compact (entrato in vigore il 1° gennaio 2013 e approvato da 25 dei 27 Paesi dell'Ue, lo hanno bocciato Gran Bretagna e Repubblica ceca) prevede inoltre l'obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, a un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità.

Resta il fatto che si tratta, restando a primi tre vincoli - debito/Pil 60%, deficit/Pil 3% e inflazione non oltre il 2% - di paletti piuttosto rigidi. Difficili da sostenere. Lo dimostra il fatto che in questo momento la media dei Paesi dell'Unione europea è abbondantemente fuori dai primi due paletti. Il deficit/Pil dell'Unione europea è al 3,7% e il debito/Pil al 90,6%. L'inflazione, invece, è sotto controllo (1,4%). Anche se dietro questa buona notizia si nascondono gli effetti della recessione che, riducendo i consumi interni e inasprendo il fenomeno della svalutazione dei salari, sta spingendo alcuni Paesi (la Grecia è stato il primo ma non è detto che sia l'ultimo) nelle sabbie mobili della deflazione.

Ok, l'Unione europea in questo momento non è in grado di rispettare gli stessi vincoli che da sola si è data. Ma nel mondo ci sono Paesi che, pur non avendoli sottoscritti, sono così virtuosi da rispettarli?

Escludendo i Paesi del terzo mondo e delle aree meno sviluppate (che evidentemente non sono nelle condizioni di rispettare questi paletti) vediamo quale è il quadro dei Paesi del G20, i più industrializzati al mondo, quelli che rappresentano circa i due terzi del commercio e della popolazione mondiale, oltreché l'80% del Prodotto interno lordo del pianeta.

I dati mostrano un quadro preoccupante. Se un Paese supera il primo ostacolo (deficit/Pil entro il 3%) finisce per cadere sul secondo (debito/Pil al 60%). Oppure se supera i primi due cade sul terzo, l'inflazione entro il 2%. Prendiamo il Canada: ha un deficit/Pil all'1,5% e un'inflazione dello 0,7% ma cade sul debito/Pil che è pari all'85%. Oppure la virtuosa Australia, tra le mete preferite per gli europei che non riescono a trovare lavoro a casa. Il deficit/Pil è al limite (3%), il debito pubblico è decisamente basso e sotto controllo (-20,7%) ma l'inflazione è un po' fuori i dettami europei (2,5%). Sarebbe ammonita ma l'Australia avrebbe le carte in tavola per far parte del club europeo. Così come, a sorpresa, la Corea del Sud che a conti fatti è oggi l'unico Paese che sarebbe in grado di onorare i tre più grandi paletti europei. Con un deficit/Pil all'1,1%, un debito/Pil al 35% e un'inflazione all'1% Seul e dintorni sarebbe di diritto nell'Ue.

Ma il quadro generale resta sconfortante. Come potrebbe la prima economia del pianeta (gli Stati Uniti) che produce ogni anno beni e servizi per 15 trilioni di dollari far parte dell'Ue se viaggia con un deficit/Pil dell'8,5%, vicino al 10% di Grecia e Spagna e non lontano dal 7,8% del Regno Unito? Come potrebbero i Paesi che vivono in surplus grazie alle materie prime energetice (come Arabia Saudita, Russia) far parte dell'Ue se, pur avendo un basso debito e avvicinandosi al pareggio di bilancio, non riescono a contenere l'inflazione?

Delle due l'una. I numeri ci dicono, molto semplicemente, o che i trattati sono troppo rigidi oppure che le economie più industrializzate, dopo tutte le crisi economiche e finanziarie scoppiate qua e là, non hanno più le forze per adeguarvisi.

twitter.com/vitolops

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