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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2014 alle ore 07:47.
L'ultima modifica è del 18 febbraio 2014 alle ore 19:33.

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«Nei rapporti tra creditore e debitore il primo è tanto responsabile quanto il secondo nell'alimentare situazioni insostenibili». È chiaro, in questa affermazione, il riferimento alla Germania e a quello che è accaduto nei primi 10 anni di Eurozona quando i prestiti tedeschi ai Paesi del Sud Europa (la cosiddetta "periferia") si sono gonfiati alimentando una bolla del debito privato, la cui esplosione ha dato il là alla crisi, sfociata successivamente in una crisi dei debiti sovrani in quanto assorbita dagli Stati. A dirlo però non sono la francese Marine Le Pen, l'olandese Geert Wilders e il greco Alexis Tsipras, leader di movimenti euroscettici nei rispettivi Paesi e fortemente critici dell'attuale impalcatura su cui si regge l'unione valutaria europea.

A dirlo è Sergio de Nardis, capo-economista di Nomisma, istituto statistico bolognese che annovera tra i soci fondatori Romano Prodi. In un recente studio, denominato "Riequilibro europeo" vengono affrontati nel dettaglio "perché "e "per come" dell'attuale crisi con alcune proposte per accelerare i tempi di uscita, proposte di cui «l'Italia dovrebbe farsi parte attiva per la costruzione di una coalizione di interessi in vista del semestre di presidenza europeo». In poche parole secondo il documento attualmente l'Unione sta lasciando che gli squilibri delle partite correnti creatisi nei primi anni "di vacche grasse dell'euro" vengano colmati dal mercato, e quindi da un lungo e doloroso processo di deflazione dei Paesi del Sud. Invece sarebbe più giusto se al processo di aggiustamento contribuissero anche i Paesi in surplus, aumentando i consumi interni (importando di più e/o aumentando i salari). In questo un ruolo importante spetta anche alla Bce che dovrebbe - stando al documento - favorire un'inflazione superiore al 2%, soprattutto nei Paesi più forti.

Ma facciamo un passo indietro, prima di saltare alle conclusioni del rapporto. Questo invita dapprima ad osservare più in profondità le cause della crisi, a non focalizzarsi solo sui Paesi del Sud Europa, debitori e importatori netti per la gran parte degli anni dell'euro. I Paesi della "periferia" (che oggi piacciono tanto e improvvisamente agli investitori come dimostra il forte calo dei rendimenti e degli interessi che pagano sulle nuove emissioni) hanno importato tanti capitali dal Nord Europa, in particolare dalla Germania, grazie ai quali fino al 2007-2008 hanno spinto in su il Prodotto interno lordo , alimentato da un incremento dei consumi, drogati però dal debito privato che si gonfiava (come dimostra questo documento della Bce). Dopodiché, scoppiata la crisi subprime, le banche tedesche hanno chiuso i rubinetti - prese a rimettere i conti in regola e per questo hanno chiesto 500 miliardi di aiuti agli stessi contribuenti - mandando in tilt l'effetto dopante sui Paesi del Sud Europa. Il castello di carta (che si reggeva su debito privato estero) è crollato.

È stato in questi anni di "vacche grasse" che si sono alimentati degli squilibri all'interno dell'Eurozona che oggi sono tuttora irrisolti. I Paesi della periferia hanno accumulato spaventosi deficit delle partite correnti (gli Stati hanno incassato dalle esportazioni meno di quanto hanno speso per le importazioni) portando il debito estero netto alle stelle. Basti pensare che Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo oggi viaggiano con un pesante fardello sulle spalle dato che «il debito netto esterno supera ampiamente il 90%». Dinamiche simili ma meno pesanti hanno colpito l'Italia che viaggia con un debito esterno netto del 30%. «In modo simmetrico ai periferici, la posizione creditoria della Germania è rimasta su un trend in costante crescita, superando negli ultimi anni il 40% del Pil».

La Germania registra «un attivo senza precedenti della bilancia delle partite correnti della zona della moneta unica: circa 200 miliardi di euro, un valore superiore a quello della Cina. La palese contraddizione tra il segnale di un'area euro iper-competitiva, derivante dal suo grande surplus commerciale, e la realtà dei diversi Paesi membri in forte difficoltà è indicativa dell'anomalia che ha contraddistinto finora il meccanismo di riequilibrio europeo».

Numeri che indicano che oggi gli squilibri nell'area valutaria non mancano. E che i meccanismi di riduzione degli stessi sono inceppati. Il trattato sul funzionamento dell'Unione europea indica che l'Unione si impegna a compensare gli squilibri. Nel dettaglio l'articolo 119 recita: «L'azione degli Stati membri e dell'Unione comprende, alle condizioni previste dai trattati, l'adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza». E poi c'è anche l'articolo 174: «Per promuovere uno sviluppo armonioso dell'insieme dell'Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l'Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite». E l'articolo 176: «Il Fondo europeo di sviluppo regionale è destinato a contribuire alla correzione dei principali squilibri regionali esistenti nell'Unione, partecipando allo sviluppo e all'adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo nonché alla riconversione delle regioni industriali in declino».

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