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Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2014 alle ore 16:20.

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Come sempre è soprattutto una questione di soldi. In questo caso, parliamo di 523 milioni di dollari di sospette mazzette. Come ai tempi del Watergate, si tratta di seguire quei soldi e vedere dove portano. Questo sta facendo da mesi Procura di Milano in un'indagine che coinvolge le autorità di almeno altri quattro Paesi: Usa, Gran Bretagna, Svizzera e Nigeria, Tra gli indagati, due nomi eccellenti: l'attuale amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. In concorso con altre sei persone, sono accusati di aver «partecipato agli accordi intervenuti per il versamento di ingenti somme di denaro a pubblici ufficiali nigeriani in contropartita dell'attribuzione a Eni e Shell del 100% della concessione denominata Opl-245, a titolo di mero favoritismo». Eni ha fatto sapere di stare «prestando la massima collaborazione alla magistratura» e di confidare «che la correttezza del proprio operato emergerà nel corso delle indagini».

Alcuni dati sono già stati accertati. Si sa infatti che l'ammontare totale in questione è di un miliardo e 92 milioni di dollari. Si sa inoltre che il 24 maggio 2011 questa somma è stata bonificata dall'Eni su un conto presso la banca JP Morgan di Londra controllato dal Governo della Nigeria al fine di acquisire il 50% di una licenza di esplorazione di un campo petrolifero offshore denominato Opl-245. L'altro 50% era invece di Shell. Eni ha sempre sostenuto - e ha confermato anche ieri - "di aver stipulato gli accordi per l'acquisizione del blocco unicamente con il Governo nigeriano e la società Shell. L'intero pagamento per il rilascio a Eni e Shell della relativa licenza è stato eseguito unicamente al governo nigeriano".

La Procura, che sta indagando con il supporto del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano, è invece convinta che il Governo di Abuja abbia giocato un ruolo di mero comprimario in una trattativa che nel corso di un anno e mezzo, dall'autunno del 2010 alla primavera del 2011, ha avuto come protagonisti due nigeriani e due italiani. Parliamo dell'ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, che aveva assegnato la concessione originaria dell'Opl-245 alla Malabu, società da lui stesso segretamente controllata, del faccendiere nigeriano Emeka Obi e del suo socio italiano Gianluca Di Nardo, a sua volta collegato a Luigi Bisignani, l'ex giornalista che nel 2011 ha patteggiato una condanna a un anno e 7 mesi per la questione P4. Da una lettera inviata dalla Procura di Milano alle autorità britanniche a supporto di una rogatoria si apprende che "un'enorme parte" del denaro bonificato dall'Eni - per la precisione 523 milioni di dollari - sarebbe stato "successivamente stornato" a fini corruttivi. Altri 85 milioni di dollari circa dovrebbero poi andare a Emeka Obi. A stabilirlo è stato un tribunale civile di Londra al quale aveva fatto ricorso il faccendiere nigeriano per far valere le proprie ragioni di parte interessata nella trattativa. Come ha testimoniato lo stesso Obi nel procedimento londinese, quella somma sarebbe stata poi spartita con Di Nardo (anche perché quest'ultimo aveva contribuito a pagare le parcelle degli avvocati). Quei soldi sono stati però ora congelati dalle autorità britanniche su richiesta degli inquirenti italiani.

Insomma la questione dirimente di questa vicenda è una sola: a chi è andato il miliardo che il gigante petrolifero italiano ha pagato su un conto gestito dal Governo nigeriano? Eni ha sempre sostenuto di non essersi avvalsa di alcun intermediario e di aver sempre negoziato direttamente con il Governo della Nigeria. In un'audizione al Senato, l'aprile scorso, l'allora Ad Scaroni aveva dichiarato: "Noi trattiamo solo con i governi. Niente intermediazione". E il responsabile dell'ufficio legale Massimo Mantovani aveva reiterato: "Non abbiamo utilizzato alcun tipo di intermediario. I pagamenti sono andati - ci siamo assicurati - in un conto del Tesoro della Nigeria".

Eppure documenti, intercettazioni, email e testimonianze raccolte dal nostro giornale - oltre che la sentenza di un tribunale civile di Londra - indicano che un'intermediazione c'è stata. Non solo: da messaggi di posta elettronica di cui Il Sole 24 Ore è entrato in possesso risulta evidente che il Governo nigeriano aveva un semplice ruolo di garante tra Eni e Malabu e che, in base agli accordi presi, il denaro pagato sul conto del Tesoro a cui ha fatto riferimento l'avvocato Mantovani sarebbe dovuto andare Malabu/Etete. Certo è che su quel conto il miliardo depositato dell'Eni è rimasto ben tempo. E sebbene molti dei beneficiari finali rimangano ancora ignoti, il nostro giornale è in grado di ricostruire alcuni passaggi-chiave. Già il primo è estremamente interessante. Pochi giorni dopo aver ricevuto il miliardo e 92 milioni, per l'esattezza il 31 maggio 2011, ci risulta che JP Morgan abbia ricevuto istruzioni dal Governo nigeriano di trasferire l'intera somma su un conto svizzero.

La banca in cui era stato aperto quel conto era la Banca della Svizzera Italiana, una controllata del gruppo assicurativo triestino Generali (di cui, ironia della sorte, l'allora Ad dell'Eni Paolo Scaroni era consigliere di amministrazione). Quando i funzionari svizzeri si vedono arrivare un bonifico di quella portata aprono immediatamente una due diligence. E trovando quel bonifico sospetto decidono di restituire il denaro. Che così torna sul conto JP Morgan a Londra. A Il Sole 24 Ore risulta che quel conto fosse legato a una scatola vuota di nome Petro Service. E che a interessarsi di quell'operazione sia stato Gianfranco Falcioni, un uomo d'affari italiano da 42 anni in Nigeria che gestisce un'importante azienda di supporto all'industria petrolifera, la Alcon Nig Ltd. Falcioni è anche vice-console onorario italiano nella città di Port Harcourt, un porto sul delta del Niger.

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