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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2014 alle ore 09:50.
L'ultima modifica è del 11 ottobre 2014 alle ore 13:37.

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L'ondata ribassista che da settimane investe il mercato del petrolio si sta ingrossando ed è arrivata a travolgere il Brent al punto da farlo scivolare fino a 88,11 dollari al barile, il minimo dal 2010. Il clima di crescente pessimismo sulla crescita mondiale e il taglio dei listini del greggio da parte dell'Iran – che ha mostrato così di seguire l'Arabia Saudita nella guerra dei prezzi – sono riusciti ad abbattere la barriera dei 90 dollari al barile: una soglia non solo psicologica, ma anche tecnica, che ha innescato una serie di ordini stop-loss. Uno scossone è arrivato anche dalla presenza di un gran numero di opzioni put (che danno diritto a vendere), con prezzo di esercizio proprio a 90 dollari: con l'avvicinarsi dello strike-price, molte banche si sono affrettate a coprirsi vendendo futures e accelerando così la caduta di prezzo del Brent, che è arrivato fino a 88,11 $/barile, il livello più basso dal 2010. Una sorte analoga è toccata al Wti, sceso a 84,39 $ e anch'esso ormai in bear market come il Brent, ossia in ribasso di oltre il 20% rispetto al picco di giugno.

Non è tuttavia esclusivamente con motivi di natura tecnica che si spiega la tendenza ribassista del petrolio e più in generale delle materie prime, che nel complesso sono vicine ai minimi da cinque anni. Dopo anni di prezzi da primato, l'offerta di commodities è finalmente cresciuta, nel caso del greggio per merito soprattutto dello shale oil americano, che ha fatto crescere la produzione Usa fino a 8,9 milioni di barili al giorno la settimana scorsa, il massimo dal 1986 e l'80% in più rispetto ai livelli del 2008, l'anno in cui il prezzo del petrolio era schizzato al record storico, oltre 147 $/barile. Il problema è che la nuova produzione – di petrolio così come di metalli, minerale di ferro e altro - sta arrivando sul mercato nel momento sbagliato: la domanda è debole e per di più rischia di frenare ulteriormente. In una situazione del genere solo un forte taglio di produzione da parte dell'Opec potrebbe forse riuscire a invertire la tendenza al ribasso per il greggio. Ma il cartello degli esportatori sta al contrario estraendo sempre di più e i suoi membri – Arabia Saudita in testa – sembrano impegnati a contendersi quote di mercato piuttosto che a difendere i prezzi.

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