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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2014 alle ore 15:55.
L'ultima modifica è del 16 ottobre 2014 alle ore 16:09.

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È una questione di centimetri, in più o in meno. Ma sono centimetri che pesano. E possono fare tendenza in tutto il mondo. Perché nel quadrilatero Montevideo-Losanna-Washigton-Mosca sta andando in scena un braccio di ferro sul packaging delle sigarette destinato a fare la storia nel cruciale dilemma tra tutela della salute pubblica e protezione degli interessi commerciali internazionali.

La big del tabacco contro il piccolo stato sudamericano
Da una parte la big dei big del tabacco, Philip Morris; dall'altra l'Uruguay, piccolo stato sudamericano di 3,5 milioni di persone che ha deciso di mostrare i muscoli, prendendo molto sul serio il trattato internazionale del maggio 2003 per la progressiva messa a bando del fumo, l'unica vera vittoria ottenuta dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nella sua non sempre gloriosa carriera. Ebbene, se l'accordo Oms impone ai Paesi che lo sottoscrivono, tra le altre misure, di tappezzare di drammatiche immagini anti-fumo almeno il 50% dei pacchetti di sigarette, l'Uruguay ha deciso di “strafare”: qui i produttori sono obbligati a ricoprire con fotografie molto esplicite ben l'80% delle confezioni. Per non parlare del divieto - che l'Uruguay ha imposto per primo al mondo - di distribuire varianti dello stesso prodotto: le versioni “light” o “mild” e via dicendo di uno stesso brand, sono state messe al bando per evitare di trarre in inganno i fumatori con messaggi fuorvianti su formulazioni apparentemente meno dannose.

Uruguay terzo al mondo per intransigenza dopo Thailandia e Australia
Ce n'era abbastanza perché il gigante reagisse. Non che l'Uruguay sia il più accanito al mondo, nella guerra senza quartiere al fumo: in Thailandia e Australia - come rivela l'ampia survey pubblicata proprio ieri dall'autorevole Canadian Cancer Society (il Canada è un veterano delle politiche smoke-free) - le immagini-shock arrivano a coprire rispettivamente l'85% e l'82,5% del packaging. Terzi al mondo per intransigenza, dunque, ma primi nel mirino di Philip Morris. La multinazionale - affermano i difensori dell'Uruguay - avrebbe deciso di dare una lezione esemplare al piccolo Davide che ha scelto di ribellarsi al Golia del tabacco. Se dovesse vincere, si creerebbe un precedente importante, capace di dissuadere altri Paesi dalla lotta dura e pura alla nicotina.

Dopo la “cura” in Uruguay quasi dimezzata la popolazione che fuma
La posta in gioco è notevole: i produttori sono consapevoli che ogni pacchetto di sigarette è un vero e proprio biglietto da visita del loro marchio, con cui tradizionalmente - peraltro - veicolano messaggi di successo nella vita e nella carriera. Messaggi che cozzano con le foto di bocche devastate dal cancro, di radiografie impietose di polmoni anneriti, di bimbi imbavagliati da maschere antigas, di piedi mangiati dalla gangrena che campeggiano sulle confezioni vendute in Uruguay. Immagini di enorme impatto che - è ormai provato - valgono più di mille parole, soprattutto in paesi dove buona parte della popolazione è ancora analfabeta. E se in Uruguay prima della “cura” fumava il 45% della popolazione, oggi grazie al massiccio intervento legislativo anti-fumo la percentuale è crollata al 23%. Al 13% tra i giovani, che continuano ad abbandonare il ricorso alle bionde.

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