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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2014 alle ore 12:40.
L'ultima modifica è del 20 ottobre 2014 alle ore 21:44.

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Janet L. Yellen (Foto Afp)Janet L. Yellen (Foto Afp)

Adesso ci mancava anche il petrolio, penseranno i più critici nei confronti dell’economia globalizzata, dove il battito di ali di una quotazione da una parte del mondo è in grado di spostare gli equilibri alla velocità della luce anche nell’emisfero opposto. E l’ultimo battimo di ali è il prezzo del petrolio. Lo scorso anno il Brent del Mare di Londra viaggiava a 110 dollari al barile. La scorsa settimana è invece sceso sotto quota 80 dollari, segnando un calo vicino al 30% in 12 mesi. Una bella notizia per gli automobilisti che stanno risparmiando - con le dovute proporzioni con cui il calo della quotazione all’ingrosso si trasmette poi nella riduzione del prezzo alla pompa - qualche soldino. Ma, nel complesso, il calo violento del prezzo del petrolio ai minimi degli ultimi quattro anni non è una buona notizia. Molto semplicemente, perché indica che l’economia globale sta rallentando, ha meno bisogno di energia per funzionare.

La frenata della domanda di petrolio coinvolge i Paesi asiatici (in primis la Cina) ma anche l’Europa. Se a ciò aggiungiamo un eccesso di offerta (adesso anche gli Stati Uniti sono diventati forti produttori) abbiamo più chiare le motivazioni di questo vigoroso calo.

L’arretramento delle quotazioni del greggio non è quindi preoccupante come dato di fatto ma come sintomo di un rallentamento economico globale. E può essere un fattore destabilizzante al punto da portare in disinflazione (rallentamento dell’inflazione) in più aree contemporaneamente. A settembre l’inflazione su base annua in Cina è scesa all’1,6%, un dato incredibilmente basso se si considera che dal 1986 al 2014 (compreso) il Paese ha registrato un’inflazione media del 5,72%. Negli Stati Uniti l’inflazione è scivolata all’1,7% a settembre contro il 2% di agosto. Siamo quindi sotto la media secolare (3,3% dal 1914 al 2014) e sotto il 2% considerata tanto dalla Federal Reserve quanto dalla Banca centrale europea la soglia obiettivo di medio periodo. Quanto all’Eurozona il dato medio viaggia allo 0,3% ma ci sono ben sei Paesi su 18 (fra cui l’Italia) ufficialmente in deflazione (decrescita dei prezzi che è considerata molto pericolosa dato che spinge i consumatori a rimandare gli acquisti alimentando una spirale recessiva).

I dati indicano quindi in modo inconfutabile che è evidente un processo di disinflazione globale, alimentato anche dalla discesa del prezzo del petrolio che, a sua volta, non è altro che lo specchio di un rallentamento del ciclo economico globale (oltre che di un’eccesso di offerta). Secondo Credit Suisse un ulteriore calo del prezzo del petrolio del 10% fino a dicembre farebbe scendere le stime di inflazione per il 2015 nell’Eurozona sotto l’1%.

Detto questo, come se ne esce? Se l’Eurozona sta facendo davvero fatica a combattere la trappola di liquidità in cui è caduta e a far ripartire l’inflazione, Cina e Stati Uniti riusciranno in anticipo a scongiurare rischi di disinflazione? Secondo il presidente della Federal Reserve di St. Louis, James Bullard, «se dovessero crescere i rischi di disinflazione, la Fed dovrà aumentare gli acquisti di titoli del Tesoro, ma dovrà essere una reazione disciplinata». Lo stesso aggiunge che i «mantenere i tassi a zero lungo porta a crescenti rischi di deflazione». In poche parole, il tasso di inflazione è tornato ad essere un market mover potente anche negli Stati Uniti. E c’è chi nella stessa Federal Reserve non esclude quindi il ricorso a una nuova fase di stimoli monetari (una sorta di quantitative easing 4) proprio mentre a fine ottobre il governatore Yanet Yellen dovrebbe annunciare il completamento del tapering (ovvero la fine degli stimoli monetari che attualmente viaggiano al ritmo di 15 miliardi di dollari al mese).

Mercoledì 22 ottobre ne sapremo di più quando verrà comunicato il dato dell’inflazione negli Usa a settembre. In caso di ulteriore frenata avrà ragione l’allarme lanciato da Bullard o preverrà la linea della Yellen che in un meeting venerdì scorso a Boston ha smorzato i toni («non rilascerò alcun commento di politica monetaria») dopo le dichiarazioni arrivate da Bullard il giorno prima sul possibile slittamento del termine del quantitative easing?

«La disinflazione globale è un rischio che si sta materializzando mese dopo mese. Il repentino rallentamento della crescita dei prezzi al consumo, dovuta principalmente al calo del prezzo degli energetici, coinvolge diverse aree geografiche a livello mondiale, non solo Usa ed Europa, ma anche Asia, come emerso dai recenti dati cinesi - spiega Vincenzo Longo, strategist di Ig -. Occorre puntualizzare che, se la dinamica principale rimane condizionata dal calo del prezzo del petrolio, su alcune aree geografiche il drastico peggioramento delle prospettive inflattive risente del calo della domanda aggregata dovuta al pessimo stato di salute dell'economia. È chiaro il riferimento all'Europa, dove il rischio di deflazione (calo dei prezzi al consumo) è concreto».

«L'America è sempre più indipendente dalle dinamiche globali del prezzo del petrolio. Per altro il calo delle materie prime non energetiche è un fenomeno legato più all'effetto spot sull'offerta che non a fattori strutturali - spiega Donatella Principe, responsabile institutional business di Schroders -. A livello globale se vi sono rischi di deflazione, essi sono maggiormente legati ad altri due fattori: la debolezza della domanda in Europa unita all'elevato tasso medio di disoccupazione. Il mix di questi due fattori può generare una deflazione di stile giapponese, quella sì dannosa per l'economia. Il secondo fattore di rischio di deflazione globale è l'hard landing in Cina; sebbene in questo caso le ricadute maggiori sarebbero sui Paesi Emergenti più che su quelli sviluppati».

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