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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2015 alle ore 12:18.
L'ultima modifica è del 15 gennaio 2015 alle ore 10:42.

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(Reuters)(Reuters)

La scorsa estate un barile di petrolio costava 115 dollari. Oggi siamo a 45. Questo clamoroso e rapidissimo calo (-60%) sta rimescolando le carte nell’economia mondiale. Alcune società statunitensi che avevano investito molto sulla produzione di shale oil (allo scopo di ridurre la dipendenza degli Usa dal cartello dei Paesi produttori dell’Opec “guidato” dall’Arabia Saudita) stanno chiudendo i battenti, di fronte all’insostenibilità di sostenere i margini con un prezzo del petrolio molto più basso. Ripercussioni importanti anche per molti Paesi esportatori i cui governi hanno impostato le spese di bilancio (deficit) contribilanciate da entrate dalla vendita dell’oro nero su prezzi stimati ben più alti. In forte difficoltà, in particolare il Venezuela che ha impostato il budget governativo basandosi su un prezzo del petrolio a 100 dollari, l’Iran (130), la Russia (105) e così via.

L’Arabia Saudita, intanto, continua a mantenere un atteggiamento di ferro. Il ministro dell'energia dell'Arabia Saudita, Ali Al-Naimi, ha dichiarato che «Riyadh» non ha alcuna intenzione di ridurre la sua produzione. «Che il prezzo scenda a 20, 40, 50 o 60 dollari, non ha alcuna importanza». Senza possibilità di repliche anche la dichiarazione del principe saudita Alwaleed bin Talal: «Sono sicuro che non vedremo più prezzi a 100 dollari al barile».

Per gran parte degli ultimi 40 anni, l'Arabia Saudita, prima nazione esportatrice di petrolio del mondo, ha agito da «swing producer», cioè era in grado di influenzare i prezzi, tagliando o aumentando la produzione, come ricorda Christophe Bernard, chief strategist di Vontobel. Che il produttore con i più bassi costi di produzione assumesse questo ruolo era insolito e anche contrario a ogni logica economica. Tutto ciò appartiene ormai al passato. A quanto pare, il Paese è ora determinato a difendere a spada tratta la sua quota di mercato. Sul piano mondiale, l'attuale eccedenza di offerta, stimata a 1,5-2 milioni di barili, si tradurrà in una riduzione degli investimenti in aree ad alto costo come il Mare del Nord (dove viene estratto il Brent), nei giacimenti profondi al largo delle coste brasiliane, nelle sabbie bituminose canadesi e anche nei progetti di shale oil e shale gas negli Usa.

È chiaro che il braccio di ferro sul prezzo del petrolio è una questione geopolitica, una sorta di guerra che vede come protagonista la materia prima che fa girare il mondo che, per forza di cose, è anche il bene più speculato del pianeta. Quello che sta accadendo nell’ultimo anno, del resto, ricorda in parte quanto accaduto nel 1985-1986 quando il petrolio crollo del 70% da 30 a 10 a dollari al barile. Del resto, non è la prima volta che l’Arabia assume questo atteggiamento. Nel 1988, nel 1998 si comportò allo stesso modo, sempre per non perdere quote di mercato a favore dei suoi concorrenti storici più importanti e minacciosi, Iraq o Iran. Per questo la caduta potrebbe durare più a lungo. L'ultima volta, nel marzo del 1999, ci volle una minaccia di prezzi a 5 dollari per riportare a maggiore saggezza sia Riad che gli altri membri Opec.

Dopo un prolungato periodo di debolezza dei prezzi del petrolio – tra il 1990 e il 2003 si attestavano in media su 20 dollari Usa al barile – e di bassi investimenti nell'attività esplorativa, all'inizio del secolo l'aumento della domanda della Cina e dei paesi emergenti ha fatto lievitare i prezzi a una media di 90 dollari Usa tra il 2006 e 2014 . Il rialzo dei prezzi ha favorito gli investimenti nell'esplorazione petrolifera e nelle tecnologie affini. Le attività offshore in Africa occidentale, Brasile e nel Golfo del Messico, per esempio, hanno condotto a un incremento della produzione non-Opec.

Ecco, questa è una piccola sintesi di quello che sta accadendo. Ma la domanda del momento è probabilmente un’altra: il calo del prezzo del petrolio è solo un male (perché, derivante da un eccesso di offerta sulla domanda, indica di riflesso la debolezza dell’economia globale, perché crea uno scombussolimento geopolitico e perché spinge molti Paesi nella spirale della deflazione) o può essere un bene? Difatti, per i cittadini la benzina costa ora molto meno e potrebbero esserci forti risparmi anche sui prezzi dei tantissimi prodotti nella cui produzione c’entra direttamente o non il petrolio. Non sarebbe questo un volano per i consumi? E poi, molti Paesi europei (Italia compresa) non avrebbero un netto miglioramento della bilancia dei pagamenti con il forte risparmio sulla bolletta energetica?

Si pensi ad esempio che il calo il calo del prezzo della benzina rappresenta per gli Stati Uniti l’equivalente di un taglio annuale delle imposte pari a 150 miliardi di dollari. Mica briciole.

In sintesi, il calo del prezzo del petrolio darà una mano all’economia italiana? «Non credo che la caduta del prezzo del petrolio sia in assoluto negativo per l'Italia e per i Paesi importatori e credo non sia completamente corretto darne una valutazione guardando alla performance degli indici borsistici, condizionati tra l'altro da importanti eventi in agenda nei prossimi giorni - spiega Laura Tardino, strategist di Bnp Paribas ip -. Tuttavia, il peso di alcune società energetiche, per le quali il calo del greggio sarà sicuramente un problema, è significativo su alcuni degli indici di riferimento del nostro paese - a titolo di esempio, Eni da sola pesa circa il 14% sul Ftse Mib - e questo forse lega parte della loro performance a quella del greggio. Nei prossimi mesi il significativo calo del prezzo del petrolio dovrebbe dare una mano all'economia italiana. Sarà probabilmente un piccolo aiuto se paragonato a quello che darà ad altre economie, meno vessate da pesanti accise e dalla elevata disoccupazione».

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