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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2015 alle ore 06:45.
L'ultima modifica è del 27 gennaio 2015 alle ore 09:56.
«Ora che il petrolio è intorno a 45-50 dollari penso che forse abbiamo raggiunto il fondo e molto presto vedremo rimbalzare il prezzo». Il segretario generale dell’Opec, Abdullah El Badri, non si era mai esposto così tanto nel prevedere un’inversione di tendenza sul mercato. E la reazione è stata immediata: le quotazioni del barile, che erano tornate vicinissime ai minimi dal 2009, sono rimbalzate con forza, anche se il sussulto ha avuto vita breve. Dopo una puntata a 49,29 dollari, il Brent ha chiuso a 48,16 $ (-1,3.%), mentre il Wti - che aveva oscillato tra 44,35 e 46,41 $ - si è fermato a 45,15 $ (-1%).
A margine di un convegno a Londra, El Badri ha anche dato ad intendere che l’Opec potrebbe rispoverare l’dea di coordinare un taglio di produzione con altri paesi, anche se i tempi non sono ancora maturi. «Ci vorranno altri quattro o cinque mesi - ha detto alla Reuters - Non vedremo nessuno sforzo concreto prima di metà anno, perché prima vogliamo vedere come il mercato si comporterà a fine semestre». Il segretario generale dell’Opec ha inoltre ripetuto, con parole quasi identiche, l’avvertimento già lanciato dal ceo dell’Eni, Claudio Descalzi. «Il petrolio potrebbe arrivare anche a 200 $ se la mancanza di investimenti darà luogo a una vera carenza di offerta».
Un’esito così drammatico appare ancora lontano, quanto meno ai grandi investitori: al Nymex gli hedge funds continuano ad accumulare scommesse al ribasso sul Wti, tanto che le loro posizioni corte sono salite al record da quattro anni nella settimana al 20 gennaio (94.203 tra futues e opzioni). L’ipotesi che il petrolio possa tornare protagonista di un rally - benché non a breve - è comunque condivisa. Le compagnie petrolifere stanno infatti reagendo con forza al ribasso dei prezzi e molto probabilmente continueranno a farlo: secondo Morgan Stanley gli investimenti in esplorazione e sviluppo di giacimenti potrebbero ridursi del 20%, ossia di 28 miliardi di $, entro il 2017.
L’ultimo giro di vite ai costi l’ha dato ieri Bp, congelando per un anno i salari di tutto il personale. Nelle stesse ore la giapponese Marubeni ha annunciato svalutazioni per un miliardo di $, relative ad asset nel petrolio e nel gas (soprattutto nel Mare del Nord), ma anche all’acquisizione di Gavilon, la società americana di trading di cereali che aveva acquistato solo nel 2013. L’operazione comporta un dimezzamento della stima sugli utili annui, a 931 milioni di $.
Anche lo shale oil intanto minaccia di frenare nei prossimi mesi (lo farà a partire da maggio, scommette John Kemp, analista di Reuters). Le trivelle attive negli Usa stanno infatti diminuendo molto velocemente: con 165 impianti “depennati” dal conteggio di Backer Hughes in tre settimane, addirittura al ritmo più veloce dal 1987.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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