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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2015 alle ore 07:37.
L'ultima modifica è del 05 marzo 2015 alle ore 09:12.

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Il crollo del petrolio ha fatto la prima vittima eccellente. Si tratta di Afren, società quotata sul listino principale di Londra, che ieri è sprofondata di oltre il 50% in borsa dopo aver saltato il pagamento di una cedola di 15 milioni di dollari su un’obbligazione che scadrà a febbraio 2016. Il suo era un default annunciato, addirittura «imminente» per le agenzie di rating che la classificavano ai gradini più bassi della scala di valutazione, addirittura sotto il livello «spazzatura».

Altre compagnie petrolifere sono già inciampate in un default negli ultimi mesi, ma finora si era trattato di piccole società, tutte nordamericane, con produzioni irrisorie - se non addirittura inesistenti - e costi operativi elevatissimi, finanziati con montagne di debiti. Afren non si occupa di shale oil, ma di petrolio convenzionale, anche se per ora estrae solo 30mila barili al giorno in aree non proprio tranquille, come la Nigeria e il Kurdistan iracheno. Fino a poco tempo fa era considerata una promettente opportunità di investimento, su cui erano stati in molti a scommettere. Anche le recenti difficoltà - legate a malversazioni dell’ormai ex ceo e non solo alla discesa di prezzo del barile - sembrava potessero essere superate.

Afren ci crede ancora. Quella di non pagare gli interessi è stata una scelta deliberata, ha chiarito, per non prosciugare la liquidità mentre sta negoziando un piano di salvataggio con i creditori: un gruppo di obbligazionisti, tra cui JpMorgan Asset Management, Ashmore Group e Pacific Investment Management, secondo indiscrezioni di Bloomberg avrebbe offerto di rilevare una quota di controllo della società. Il default appena dichiarato, inoltre, non farà scattare l’obbligo di rimborso del bond, né “contagia” le altre emissioni obbligazionarie del gruppo, indebitato per 1,2 miliardi. Un’altra scadenza tuttavia incombe a breve: altri 50 milioni da pagare entro fine marzo (scadenza già prorogata di due mesi. E il tentativo di Afren di vendersi alla nigeriana Seplat è naufragato un mese fa, dopo un’offerta «significativamente al di sotto del valore del debito della compagnia».

I problemi di Afren sono tutt’altro che isolati. E con oltre 200 miliardi di dollari di junk bonds emessi solo negli Stati Uniti da società energetiche (più almeno 50 miliardi di leveraged loans) è più che probabile che si verifichino altri default. Benché il private equity e gli hedge funds si siano lanciati all’assalto del settore, tanto da risollevare il comparto high yield in febbraio, le situazioni di stress restano numerose. Tra queste spicca quella di Samson Resources, una società che era stata “salvata” proprio da un fondo di private equity, il colosso Kkr, con un’acquisizione a leva da ben 7,2 miliardi di $. Di questi, ben 3,6 miliardi sono stati accollati alla società: un fardello ormai insopportabile, nonostante la cessione di numerosi asset, che le è costato l’abbassamento del rating nove gradini sotto l’investment grade e che ha spinto Kkr ad arruolare come advisor Blackstone Group e lo studio legale Kirkland & Ellis, nel tentativo di salvare il salvabile.

A fortissimo rischio è inoltre American Eagle Energy, che opera proprio a Bakken, in North Dakota, l’area più generosa per l’estrazione di shale oil. Ora ha rinunciato a trivellare, perché ha finito i soldi, e fra 30 giorni dovrà pagare una cedola obbligazionaria da 9,8 milioni. Nessuno si illude che ce la farà.

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