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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2015 alle ore 07:30.

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Sembrava l’emergenza del secolo, destinata a consegnare le nostre industrie strategiche in ostaggio alla Cina. Ma quella delle terre rare è stata piuttosto una delle più clamorose “bolle” nella storia delle materie prime. Una parabola che è giunta ieri all’epilogo con la richiesta del Chapter 11 da parte di Molycorp: l’unico produttore statunitense - e uno dei pochissimi occidentali - di questi 17 metalli strategici, non più preziosi come qualche anno fa, ma tuttora insostituibili in numerose applicazioni hi-tech.

L’irresistibile ascesa e il successivo crollo della società di Greenwood, in Colorado, rispecchia quello delle terre rare. La Cina , che ne domina la produzione, aveva iniziato dal 2009 a limitarne in modo sempre più rigido l’esportazione, col pretesto di tutelare l’ambiente. A fronte di una domanda sempre più elevata, accompagnata da fenomeni di accaparramento, il prezzo salì in modo vertiginoso, moltiplicandosi fino a venti volte nel caso di alcune terre rare. Il picco si raggiunse nel 2011, quando Pechino arrivò addirittura a bloccare per oltre due mesi le vendite al Giappone, come ritorsione in una disputa territoriale.

La “bolla” iniziò lentamente a scoppiare poco tempo dopo, secondo uno studio dell’Unione europea (si veda Il Sole 24 Ore del 25 ottobre 2014). L’emergenza da un lato ha spinto gli utilizzatori a sviluppare materiali alternativi e tecniche per ridurre l’impiego di terre rare, dall’altro ha spinto le minerarie - capitanate da Molycorp e dall’australiana Lynas, anch’essa oggi in difficoltà - a sviluppare la produzione di depositi già noti, ma “dimenticati” da tempo. Nel frattempo anche la Wto, nel primo caso avviato insieme da Ue, Usa e Giappone, ha condannato Pechino, che in seguito ha rinunciato alle quote di esportazione. E i prezzi delle terre rare sono tornati ai livelli del 2010, con scarse prospettive di ripresa, quanto meno nel breve periodo.

Molycorp è stata presa alla sprovvista dalla rapida inversione di rotta del mercato. Ma forse aveva anche fatto il passo più lungo della gamba, spendendo - e indebitandosi - troppo sull’onda dell’entusiasmo manifestatole dagli investitori. Scorporata da Chevron, la società era stata acquistata per appena 80 milioni di dollari nel 2008 da un gruppo di fondi di private equity. Collocata in Borsa a New York a un prezzo di 14 $ per azione nel 2010, un anno dopo aveva raggiunto un picco di 79,16 $ e una capitalizzazione di quasi 6 miliardi. Con le azioni che ormai quotano intorno a 20 cents, adesso si avvia al delisting.

La richiesta di amministrazione controllata - avanzata ieri anche da 20 sussidiarie nordamericane, ma non da quelle europee e asiatiche - è stata una scelta obbligata per Molycorp, che ha promesso di continuare ad operare, nella speranza di concludere la ristrutturazione entro fine anno. Sulle spalle ha 1,7 miliardi di $ di debiti, accumulati per finanziare acquisizioni e per resuscitare - tra ritardi e difficoltà tecniche - la storica miniera californiana di Mountain Pass, forse il più pregiato dei suoi asset, oggi iscritti a libro con un valore di 2,5 miliardi.

Dopo tredici trimestri consecutivi in perdita, Molycorp si è ridotta ad avere in cassa appena 74 milioni in contanti, di cui solo 21 milioni disponibili per le operazioni negli Usa, e a inizio giugno ha fatto default sulla cedola di un’obbligazione. I creditori “senior” hanno deciso di darle fiducia, concedendole un finanziamento e collaborando (in cambio della futura attribuzione di una quota di maggioranza) alla ristrutturazione. Ma il Governo Usa ha già escluso un salvataggio, nonostante le terre rare - utilizzate anche nei caccia F35 - siano classificate come materiali strategici.

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