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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2012 alle ore 06:42.

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«I numeri – spiega Francesco Merisio, direttore del Centro Servizi Calza di Castel Goffredo – dimostrano come l'area mantenga la propria leadership, ha affrontato, dalla seconda metà degli anni '90, la crisi dei consumi interni e la crescente competitività dei Paesi produttori a basso costo. Nonostante tutto, resta competitiva».

Sì, ma per quanto tempo ancora? Prima le calze si smagliavano subito. Oggi il prodotto è più resistente e con un 40 denari si può andare avanti per mesi in inverno. E la materia prima? I polimeri per produrre le fibre sono aumentati, dal 2009, «del 60-70% – sottolinea Merisio – perchè vi si producono i rivestimenti dei sedili delle automobili».
Il nodo vero sono i margini, mortificati dai costi elevati di produzione. Non solo i soliti, tasse e costo del lavoro. Ad esempio, l'energia. Tessitura automatizzata e tintura, ma anche stiratura e finissaggio richiedono caldaie e volumi d'acqua enormi. Nel 2007 (il dato più recente) i consumi elettrici e termici del distretto erano pari a 96.069 Tep (pari al 13% di tutti i consumi energetici della provincia di Mantova). Solo al Gruppo Levante si spendono 90mila euro al mese di bolletta del gas e si utilizzano, al giorno, 6-700 metri cubi di acqua, che prima di essere smaltita, dopo le tinture, deve essere perfettamente depurata.

«Negli anni '70 – spiega William Gambetti, titolare della BBF-Gambetti (50 dipendenti e 7 milioni di euro di fatturato 2011) ma anche della DueLegs (80 dipendenti e 16 milioni) – i margini di ricarico sul collant arrivavano al 400 per cento. Negli anni '90 erano ancora del 30% circa. Oggi sono del 15%, ma i costi sono saliti all'11%. Su un fatturato di 15 milioni, un calzificio che faccia tessitura e tintura spende almeno 1 milione solo di energia. La stessa che in Francia costa il 30% in meno e in Slovenia, a due ore e mezza di auto da qui, appena un terzo». Alternative? Delocalizzare la produzione. «Un fenomeno – precisa Merisio – iniziato a fine anni '90 anche per aggirare gli elevati dazi alle importazioni dei nuovi mercati nei Paesi dell'Est Europa».
Goldenlady - sede a Castiglione delle Stiviere - è un "colosso" del settore con un fatturato consolidato di oltre 600 milioni di euro e un organico di 6mila dipendenti (3700 solo in Italia) su 12 stabilimenti di cui 6 nel Paese, 4 negli Stati Uniti e 2 in Serbia.

«I ricavi - spiega Barbara Ghidini, direttore marketing di Goldenlady - provengono per circa il 40% dall'Italia, il rimanente tra Usa, Russia e Ue. Dalla metà degli anni '90 il mercato in Italia ha subito pesanti contrazioni; negli ultimi 15 anni i consumi si sono dimezzati. Nonostante ciò l'azienda ha continuato ad investire creando la catena Goldenpoint che ha circa 800 punti vendita in Italia e all'estero. Un'offerta diversificata che va dal collant, alla lingerie e al beachwear».

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