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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2012 alle ore 08:26.

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Con sempre maggiore frequenza, capi di Stato e di Governo, ministri delle finanze e governatori, organi della Ue e dell'Eurozona si chinano sul capezzale dell'euro, formulano diagnosi che fanno risalire la malattia al disordine delle pubbliche finanze dei "Gipsi" (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia) e raccomandano severe terapie basate su rigore e austerità.

Economisti, politologi e giornalisti danno voce alle apprensioni di molti e si esercitano a stendere protocolli di cura di non facile applicazione. Con l'euroscetticismo in aumento anche laddove era flebile minoranza, la via della guarigione è dai più indicata nella comunitarizzazione, totale o parziale, dei debiti pubblici dell'Eurozona. È questa un'idea che spunterebbe sicuramente le unghie alla speculazione che si avventa sui debiti sovrani dell'Europa meridionale per la frammentazione degli stessi; infatti, le finanze pubbliche di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone non sono in migliori condizioni, ma pagano interessi bassissimi, rispetto a quelli italiani o spagnoli.

La comunitarizzazione dei debiti, però, incontra la decisa opposizione della Germania e degli altri paesi "virtuosi"; come ha ricordato Hans-Werner Sinn, presidente dell'Ifo Institute, sul New York Times del 12 giugno, non solo v'è il divieto di salvataggio nel Trattato di Maastricht, ma anche una Corte a Karlsruhe che lo farebbe rispettare. Una condivisione del rischio - egli ha aggiunto - è possibile tra gli stati dell'Europa, soltanto dopo che avranno dato luogo a una comune nazione, con una costituzione, una superstruttura legale, un monopolio della forza per il rispetto della legalità, un esercito per la difesa esterna. In altre parole, l'Unione o almeno l'Eurozona si deve trasformare in una federazione, sola struttura che giustifica l'appello alla solidarietà; quest'ultimo appare oggi alla maggior parte dei tedeschi carico di azzardo morale e foriero di ulteriori richieste da parte dei prodighi Gipsi.

Che un'unione monetaria, eliminando il tasso di cambio dagli strumenti di aggiustamento e rimpiazzandolo con la molto più faticosa "svalutazione interna", avesse bisogno per sopravvivere di una qualche funzione centralizzata di finanza pubblica ne ero convinto sin dagli anni 80. Infatti, già nel 1969 Peter Kenen aveva sostenuto che un'unione monetaria doveva essere accompagnata da una qualche forma di unione fiscale, poiché un'imposta federale basata sul reddito è in grado di assorbire gli effetti di shock derivanti da spostamenti esogeni della domanda tra i beni prodotti all'interno e quelli di origine estera e che questa maniera di attutire l'impatto era superiore alla stabilizzazione, sia discrezionale sia automatica, fatta a livello regionale. Parecchi anni più tardi, Kenen ha affermato che un'unione fiscale non è essenziale per l'efficace funzionamento di quella monetaria, ma è di aiuto nel compensare per l'imperfetta rispondenza della politica monetaria unica alle esigenze di ciascun paese membro.

All'indomani dell'approvazione del Rapporto Delors, fui invitato dal presidente della Commissione europea, insieme con alcuni suoi stretti collaboratori, ad una colazione riservata durante la quale mi venne chiesto, essendo presidente del Comitato monetario, di esprimere la mia opinione sul Rapporto che sarà alla base dell'Unione economica e monetaria. La mia principale osservazione fu: manca una trattazione, almeno un riferimento alle problematiche di fiscal policy. La risposta di Delors fu immediata e netta: a me è stato chiesto di delineare un'unione monetaria, non di riscrivere il Trattato di Roma. Il problema era, quindi, ben presente ai padri fondatori, ma l'indisponibilità politica ad affrontarlo portò al sostanziale fallimento della Commissione intergovernativa per l'unione politica.

Negli anni in cui l'euro si è affermato come moneta sia all'interno sia sul piano internazionale non v'è stata una sufficiente lungimiranza per correggere la zoppia da cui era affetto sin dalla nascita. Si è fatto affidamento sull'integrazione finanziaria e sui mercati: nella buona congiuntura l'abbondante offerta di fondi ha contribuito a gonfiare la bolla edilizia in Irlanda e Spagna e a non arginare il pubblico disavanzo in Portogallo, Italia e Grecia, paese dove i conti però erano stati a lungo truccati; in quella avversa ha spinto fortemente i tassi verso l'alto nei Gipsi e verso il basso in quelli forti, ha squilibrato nello stesso senso i processi di rifinanziamento del debito, ha ridotto il grado di integrazione finanziaria in Europa. Si può oggi rapidamente dar vita a una funzione fiscale centralizzata di una qualche dimensione in una cornice federativa? Temo che la crisi non conceda i tempi necessari per un simile salto nella costruzione dell'Europa, mentre sono ancora in attesa di ratifica da parte di molti stati il Trattato su stabilità, coordinamento e governo dell'Uem e quello istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità. Tuttavia, l'iniziativa per il lancio dell'Unione federativa e fiscale andrebbe presa con ogni urgenza per dimostrare che la fiducia nell'avvenire dell'Eurozona è ancora forte e che ad essa si vuole pervenire in tempi certi. Con altrettanta decisione e maggiore velocità si deve procedere con l'Unione bancaria, unificando la supervisione, l'assicurazione dei depositi, la liquidazione delle entità divenute insolventi.

Per convincere i mercati a togliere l'assedio ai Gipsi e per rendere nuovamente l'Europa all'interno dei singoli stati membri un obiettivo in grado di assicurare la pace al livello politico e a quello economico, è necessario che si torni a crescere nei paesi assoggettati a massicce dosi di rigore e austerità. Un comprensibile impulso da parte della Germania per rafforzare i meccanismi di controllo comunitario sulla finanza pubblica si è avuto nel bel mezzo di una crisi finanziaria; esso si è ben presto riverberato sull'economia reale, aggravandone la recessione. I fautori del rigore a tutti i costi continuano a sostenere che solo dopo avere messo in ordine i conti pubblici i mercati si convinceranno a ridare fiducia ai paesi oggi in disavanzo e/o sovra-indebitati, le aspettative torneranno ad essere positive e il processo di crescita si riavvierà. È questo un ragionamento, a mio avviso, che non vale se tutti o quasi i paesi europei e in particolare quelli dell'Eurozona devono condurre politiche di austerità, poiché in tal caso la caduta dei redditi si ripercuote sulla domanda che a sua volta, a catena, si riflette negativamente sull'offerta, determinando una spirale recessiva, passibile di sfociare in una depressione.

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