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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2012 alle ore 08:30.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2012 alle ore 10:06.

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Non è strano che le primarie del Pd assomiglino a una sorta di congresso che si svolge in piazza, nei gazebo e in televisione. Era nella logica delle cose da quando Bersani, non senza coraggio, ha accettato di mettere in gioco la sua leadership, anzichè pretendere un plebiscito su decisioni prese altrove. Quindi, primarie uguale congresso. Tanto più che al momento i candidati sono tutti del Pd, con Vendola che ha molta voglia di restare fuori e Tabacci unico rappresentante esterno in campo.
Peraltro, se è vero che il congresso è già cominciato, il giovane Renzi in un certo senso lo ha già vinto, almeno dal punto di vista mediatico. Ha dato una scossa all'albero del Pd come non si vedeva dai tempi della Bolognina, la «svolta» che fra la fine del 1989 e il febbraio del 1991 portò a un congresso (vero) e al cambio del nome del Pci. Sono bastate poche settimane per mettere in drammatica difficoltà il gruppo dirigente del partito, che si sente sfidato come mai in passato.

D'altra parte Bersani è ancora in grado di controllare la situazione, specie se le regole delle primarie, tuttora misteriose, metteranno qualche paletto volto a favorire la partecipazione dei militanti del centrosinistra a scapito di quei «delusi da Berlusconi» (cioè voto d'opinione lontano dal Pd) a cui si è rivolto l'intraprendente sindaco fiorentino. In fondo ha ragione il manager Gori, che al quotidiano «Pubblico» ha detto: «Fra Bersani e Berlusconi, Renzi potrebbe battere più facilmente il secondo». Analisi corretta.
Intanto però l'attualità accende le luci su Vendola, l'Amleto delle primarie che a Vasto si è ritrovato accanto a Di Pietro, insieme al quale ha appena chiesto il referendum sulla riforma del lavoro e ora reclama «il ribaltamento dell'agenda Monti» nonché il rifiuto di un'alleanza estesa a Casini. Si può sottovalutare la circostanza e concludere che si tratta solo di campagna elettorale. Ma non è così. La posizione vendoliana obbliga Bersani a un chiarimento. E infatti ieri sera il segretario del Pd ha difeso l'«agenda Monti», precisando che essa sarà «integrata» dopo le elezioni con misure sulla crescita economica.

Se bastasse questo, non ci sarebbe da preoccuparsi. Ma la realtà dice che una coalizione da Casini a Vendola richiederà incredibili giochi di equilibrismo e si annuncia fin d'ora a rischio di paralisi. Vedremo. Certo è che il governatore della Puglia, se da un lato punta i piedi sullo scenario politico, dall'altro qualcosa concede. E non poco. La sua mancata partecipazione alle primarie, se sarà confermata, permetterà a Bersani di coprirsi sul lato sinistro, in modo da concentrarsi nello scontro con i renziani. Difatti il sindaco di Firenze è l'unico realmente danneggiato dal ritiro di Vendola.
Diciamo che Bersani procede, elettori permettendo, secondo il suo schema preferito: inglobare il Sel vendoliano come ala sinistra dell'alleanza (e forse anche Di Pietro); tentare di vincere le elezioni, conquistando il premio di maggioranza; subito dopo rivolgersi al centrista Casini per stipulare un patto di governo. Ma quel giorno emergeranno tutte le contraddizioni nascoste sotto il tappeto durante la campagna elettorale. Il «filo della stabilità» su cui insiste Napolitano come patrimonio da preservare sarà a rischio. E con esso, inutile dirlo, anche la fatidica «agenda Monti».

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