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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2013 alle ore 07:09.
L'ultima modifica è del 04 aprile 2013 alle ore 07:40.

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Un organismo manifatturiero, ormai da sei anni, con le calorie degli ordini e le proteine del credito ridotte al lumicino. Un corpo che si sta prosciugando nei muscoli industriali. La crisi sta provocando una riduzione anoressizzante del potenziale produttivo del nostro tessuto imprenditoriale.

L'analisi di Nomisma mostra l'impatto di lungo periodo che la recessione sta provocando. Basta vedere quanto è successo – quanto sta succedendo – alla produzione potenziale (ottenuta con il pieno impiego dei fattori della produzione e al meglio della tecnologia disponibile nel sistema economico, al netto degli alti e bassi del ciclo economico) e alla produzione effettiva, quella espressa mese dopo mese come conseguenza della domanda aggregata. Il prodotto effettivo ormai si è attestato a poco più di quota 80 rispetto a una base 100 fissata sul livello del 2005. E, già questo, dà il senso della drammaticità dell'attuale "malo passo" del nostro capitalismo industriale. Ma è soprattutto un altro dato a suscitare attenzione: il prodotto potenziale è sceso anch'esso rispetto a otto anni fa e si situa al 90 per cento.

«Il prodotto potenziale del l'industria è sceso ai livelli del 1991», nota Sergio De Nardis, capo dell'ufficio studi di Nomisma. «Il nodo – continua De Nardis, a lungo capo economista dell'Isae – è che una parte significativa della perdita rischia di essere permanente».

Nell'elaborazione di Nomisma sono in gioco tre variabili: il prodotto effettivo, il prodotto potenziale, e il rapporto fra i due (grado di utilizzo degli impianti). La serie di medio periodo costruita da Nomisma appare interessante perché mostra la vera natura della crisi. Una crisi strutturale. Almeno per l'Italia. Nel senso che, nel caso di tutte le economie avanzate, finora l'assunto interpretativo prevalente è che vi sia stata una discrasia fra la crisi finanziaria e il successivo rallentamento del sistema industriale. I funzionari di Lehman Brothers che escono dai loro uffici tenendo sotto braccia gli scatoloni. E, dodici-ventiquattro mesi dopo, gli imprenditori che finiscono in concordato. Prima la mala finanza e, quindi, il contagio all'economia reale. Nel giro di uno-due anni. Peccato che, grazie all'analisi di Nomisma, per il nostro Paese venga più di un dubbio sulla correttezza di questa interpretazione. Il grafico su prodotto potenziale-prodotto effettivo-grado di utilizzo degli impianti ha un andamento eloquente. Tutto va subito giù. A precipizio. È come se, nel nostro sistema produttivo, il virus non abbia attecchito gradualmente. È come se qualcuno, o qualcosa, lo avesse iniettato direttamente in vena. Una perfetta coincidenza dei tempi spiegabile soltanto con la debolezza pregressa del nostro sistema industriale. In pochi mesi, dalla seconda metà del 2008 all'inizio del 2009, il prodotto effettivo è calato (2005=100) da 105 a 82. E, di botto, il grado di utilizzo degli impianti è sceso da 75 a 62. Peraltro, nel periodo successivo, si verifica un interessante fenomeno: le due variabili strutturali (prodotto potenziale e prodotto effettivo) tendono a convergere, quasi ci fosse una sorta di aggiustamento, poco sopra quota 90: risale il prodotto effettivo ma scende quello potenziale; con un livello di utilizzo degli impianti intorno a quota 74 per cento. Il problema è che, dopo la forbice torna ad aprirsi, con un calo generalizzato che, nel caso del prodotto potenziale, ridiscende, come detto sopra, a quota 90: dieci punti in meno rispetto al 2005. «A questo punto – nota De Nardis – diventa difficile pensare che siano in toto recuperabili. Soprattutto perché l'immediato futuro, per la nostra manifattura, non è per niente roseo».

Dunque, la cosa appare maledettamente seria. Anche perché resta l'incognita di un posizionamento del nostro capitalismo manifatturiero sulle mappe della produzione e degli scambi internazionali che risente ancora, in misura significativa, della domanda interna. Anche le imprese esportatrici, che sono le più efficienti, sono esposte alla compressione di quest'ultima: il 65,6% del loro fatturato è realizzato in Italia. Se, poi, si prendono le imprese più piccole, la dipendenza dalla quota domestica diventa ancora più importante: fino a 9 addetti è il 79%, da 10 a 19 è il 76,3%, da 20 a 49 occupati è il 73 per cento. Dunque, con l'Italia nel tunnel di una recessione vera, le cose non sono semplici, nemmeno per le aziende più equipaggiate. Figuriamoci per le altre.

Nella complessa decrittazione del duro passaggio italiano, altri elementi di chiarimento provengono dall'ultimo Rapporto sulla competitività dei settori produttivi elaborato dall'Istat. «La stentata e modesta ripresa del 2010-2011 e la successiva recessione del 2011- 2012 – si legge nel rapporto – hanno condizionato in modo profondo e eterogeneo la performance economica dei settori produttivi italiani». L'indicatore sintetico di competitività per i settori della manifattura – costruito considerando quattro dimensioni basilari quali la competitività di costo, la redditività, la performance sui mercati esteri e l'innovazione – offre infatti uno spaccato basato sulla diversità. Fissato a 100 punti l'indice della manifattura nel suo complesso, alcuni settori strategici hanno fatto peggio di quest'ultimo: il tessile nel 2008 vale 79,3 punti, nel 2009 76,9 e nel 2010 88,2; i prodotti in metallo infilano la serie 87,5, 89,2 e 84,5; i mobili 86,4, 81,1 e 54,3; l'alimentare 78,7, 91,1 e 84. Altri comparti, invece, si comportano meglio: l'industria delle bevande ha fatto registrare nel 2008 103,6 punti, nel 2009 132,2 e nel 2010 130,9; la farmaceutica 147,2, 163 e 162,8 punti; i macchinari 126,9 punti sia nel 2008 che nel 2009 e 122,9 punti nel 2010; l'elettromedicale 110,4, 104,7 e 107,4. Sono state quattro le strategie adottate fra 2010 e 2012. Un maggior ricorso a fornitori stranieri, che ha riguardato il 20% delle nostre imprese, con un picco del 60% nei mezzi di trasporto. Un ampliamento dei servizi tecnici e commerciali forniti all'estero: 35% del totale, con una punta del 50% di nuovo per i mezzi di trasporto. Un contenimento dei prezzi di vendita: poco più del 60 per cento. Nel caso dell'elettronica e dell'elettromedicale questa risposta strategica ha sfiorato l'80 per cento. Anche se la tecnica più implementata è stata quella del (tentativo di) miglioramento della qualità dei prodotti, nella gamma e nella tecnologia: l'80% delle nostre imprese, con un massimo del 95% di nuovo nell'elettronica e nell'elettromedicale, che a sorpresa si dimostra come il comparto dotato della maggiore energia tesa al miglioramento qualitativo.

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