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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2014 alle ore 08:06.
L'ultima modifica è del 12 maggio 2014 alle ore 08:18.
Il governo di Matteo Renzi non nasconde le ambizioni italiane per il semestre europeo che debutterà il primo luglio prossimo. Rilancio della crescita economica e dell'occupazione in Europa cambiando passo, contenuto e priorità delle attuali politiche europee.
Unità politica e più integrazione a tutti i livelli inseguendo un'altra Europa, più coesa, più solidale e più umana, capace di riconciliarsi con i suoi cittadini disoccupati, provati e disillusi, quando non dichiaratamente scettici o ostili.
Anche se forse un po' velleitario nell'ansia di mettere il sale sulla coda di un'Europa svogliata, priva di visioni comuni che non siano quella della stabilità della moneta unica e in apparenza sempre meno entusiasta di "stare insieme in famiglia", il canovaccio delle priorità italiane sarebbe quello giusto al momento giusto se non dovesse fare i conti con il grande ingorgo istituzionale Ue. Che questa volta rischia di ridurre al minimo i margini di manovra della presidenza italiana.
Il secondo semestre dell'anno è già quello più breve perché è interrotto dalla pausa estiva, l'intero mese di agosto e anche l'ultima settimana di luglio, salvo eventi eccezionali. La riforma del Trattato di Lisbona, poi, l'ha molto depotenziato con la creazione della presidenza stabile del Consiglio Ue, riducendolo a una liturgia più simbolica che davvero fattuale. Questa volta si incrocia con le elezioni per il rinnovo dell'Europarlamento, molto diverse dalle precedenti per l'ondata di euroscettici che potrebbero essere catapultati nell'assemblea di Strasburgo. Si parla di un terzo su un totale di 751 seggi. Tecnicamente una simile percentuale non sarebbe in grado di sconvolgere la governabilità del parlamento perché i partiti tradizionali potrebbero mantenere comunque la maggioranza e le file degli euroscettici sarebbero (almeno così molti sperano) divise tra loro e quindi concretamente poco influenti.
P oliticamente però la constatazione irrefutabile che un cittadino europeo su tre è contrario al disegno europeo e/o all'euro sarebbe uno shock destinato a tagliare le gambe a molte ambizioni: perché sintomo della fuga del consenso popolare dall'Europa che, proprio perché è, si vanta e si professa democratica, non può agire e tanto meno avanzare su progetti più integrativi prescindendo da quel consenso.
A complicare ulteriormente le cose c'è poi il fatto che questa Europa senza popoli al seguito vive al tempo stesso una profonda crisi istituzionale, esasperatasi nel quinquennio di euro-crisi. Commissione e Consiglio Ue, e relativi presidenti, si sono progressivamente indeboliti, hanno visto nettamente ridimensionato il loro ruolo di garanti e mediatori nella dinamica intra-europea. A poco a poco, insomma, si sono ritrovati agli ordini dei Governi e del metodo intergovernativo che muovono sempre più l'Unione a scapito di quello comunitario.
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