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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2014 alle ore 11:57.
L'ultima modifica è del 21 maggio 2014 alle ore 11:28.

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«Mi piacerebbe che la tendenza a una partecipazione in calo si rovesciasse. Soltanto vent'anni fa in molti Paesi che sono oggi nell'Unione europea non si poteva nemmeno votare liberamente». Era il 7 giugno 2009 e il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso lanciava un ultimo appello a non disertare le urne.

L'Europa era chiamata a scegliere il nuovo Parlamento nell'annus horribilis della crisi, che aveva affossato la crescita, con un Pil in caduta libera del 4,5% e appesantito i conti pubblici con un deficit medio intorno al 7 per cento. Il voto ha ridisegnato la mappa politica del Vecchio Continente, premiando i partiti di destra ed estrema destra, gli anti-europei e i Verdi, mentre ha punito i governi socialisti allora in carica. Cinque anni dopo, dal 22 al 25 maggio, 382 milioni di cittadini dei 28 Paesi - la Croazia nel frattempo è entrata nel club - potranno recarsi alle urne per scegliere i 751 rappresentanti dell'unica istituzione europea eletta a suffragio universale. Un'Aula che con il Trattato di Lisbona ha allargato il ventaglio dei suoi poteri: può porre veti sul bilancio dell'Unione e sugli accordi internazionali e modificare o bocciare il 62% della legislazione.
L'Europa di oggi si presenta però con le ossa rotte e l'amarezza si è trasformata in disincanto, con un'economia che tenta la difficile risalita e quest'anno - secondo le stime di Bruxelles - dovrebbe viaggiare a un ritmo dell'1,6%, ma dove la recessione ha lasciato ferite profonde: una disoccupazione media oltre il 10% e un fardello del debito pubblico sempre più pesante. «Rispetto a cinque anni fa – sottolinea Charles de Marcilly, responsabile dell'ufficio di Bruxelles della Fondazione Schuman – il voto di questa settimana sarà una triplice sfida politica: per la prima volta il partito che vincerà le elezioni, forte del Trattato di Lisbona, cercherà di convincere i leader, e soprattutto Angela Merkel, a designare come presidente della Commissione Ue il suo candidato capolista. I nuovi eletti dovranno poi ridisegnare l'Europa del futuro, per tentare il rilancio dopo la crisi, con un forte accento sulla dimensione sociale. La terza sfida riguarda la gestione dell'avanzata dei partiti populisti».

I quattro giorni che potrebbero cambiare volto all'Unione cominceranno in Gran Bretagna e Olanda giovedì. Venerdì toccherà all'Irlanda, sabato alla Lettonia, mentre in Repubblica Ceca le urne resteranno aperte il 23 e il 24 maggio. In tutti gli altri Paesi si voterà domenica 25. L'Italia sarà l'ultima a chiudere alle 23 e da quel momento potranno essere comunicati i risultati ufficiali. Le prime proiezioni "informali", basate sugli exit poll degli altri Paesi, saranno diffuse a partire dalle 22, a urne ancora aperte in Italia.
Il calendario è diverso, così come le regole di voto e il numero di rappresentanti da inviare a Strasburgo e a Bruxelles, la doppia sede dell'Europarlamento. La più rappresentata sarà la Germania, con 96 eurodeputati, seguita dalla Francia (74) e a pari merito da Italia e Gran Bretagna (73), fino a Estonia, Cipro, Malta e Lusseburgo con sei rappresentanti, in proporzione alla quota di abitanti. Le liste sono aperte in 18 paesi, con la possibilità di scegliere uno, due candidati o tre candidati. In 8 sono chiuse e gli elettori possono indicare solo i partiti, mentre a Malta e in Irlanda vige il sistema del «voto singolo trasferibile»: è possibile assegnare più di una preferenza numerando i candidati sulla scheda.
Chi vincerà le elezioni? Il Ppe guidato da Jean-Claude Juncker, il Pse di Martin Schulz, i liberali di Guy Verhofstadt, la sinistra di Alexis Tsipras o i Verdi con il ticket tra Ska Keller e José Bové? Rispetto al 2009 l'incubo dell'astensionismo è ancora attuale, anzi, la partecipazione alle urne ha registrato un calo costante dai tempi delle prime elezioni del 1979, quando si sono espressi sei cittadini su dieci, mentre nel 2009 ha raggiunto il minimo storico del 43 per cento. Non solo. «Lo spettro dell'euroscetticismo – spiega de Marcilly – si aggira oggi come allora, non perché le urla dei partiti populisti sono più forti, ma perché le loro idee hanno una maggiore risonanza». In alcuni casi la loro avanzata potrebbe essere favorita dall'assenza di soglie di sbarramento, come in Germania, dove la Corte costituzionale ha giudicato il tetto del 3% «in contrasto con il principio generale di uguaglianza». In tutto sono 13 i Paesi che non prevedono questa barriera. In altri 9 la soglia è del 5%, in tre, tra cui l'Italia (si veda l'articolo sotto) è al 4%, in Grecia e Portogallo al 3% e a Cipro all'1,8 per cento.

La grande incognita riguarderà proprio la performance dei partiti che dicono "no" alla Ue. In totale, secondo la Fondazione Schuman, potrebbero arrivare a 180-200 seggi rispetto ai 32 attuali del gruppo politico euroscettico "Europa della libertà e della democrazia". Formare un'unica compagine non è però così facile: qui entra in gioco un'altra barriera, perché servono venticinque eurodeputati di almeno sette Paesi. La vera partita comincerà dunque solo lunedì prossimo.

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