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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2011 alle ore 09:55.

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Ora tutti si chiedono come ci sia riuscito. E quale sia l'insegnamento che lascia alla comunità degli innovatori. Chi lo conosceva bene, come Jay Elliot, antico collaboratore di Jobs e autore di una magnifica biografia professionale, non esita a definirlo "un artista". Ed è difficile non comprendere che in questa definizione c'è qualcosa di molto vero: guardando i suoi prodotti, gli ammiratori non vedono strumenti elettronici, ma rivelazioni, capaci di far scoprire nuovi mondi di senso, capaci di spostare il limite del possibile dal punto di vista tecnologico e nello stesso tempo di gratificare chi li usa in modo più estetico che funzionale.
Difficile dire se Jobs sarebbe stato d'accordo. Una carriera artistica, in senso stretto, non l'ha certo tentata. Ha amato la musica, ma non sembra che abbia pensato sul serio di diventare un musicista. Al massimo, da giovane, ha avuto una storia, dice qualcuno, con Joan Baez. Ha anche attraversato, come i Beatles che ascoltava a tutto volume, un periodo indiano: si è convertito al buddismo e ha provato una tensione tanto intensa per la religione da progettare di diventare monaco.

Certo, la fame e la follia, possono essere un connotato da artista. Ma lui l'ha proiettata sui suoi prodotti. Del suo Mac disse che era «irragionevolmente grande». Jobs non si è raccontato se non attraverso le sue opere, infondendo in esse la sua passione, la sua visione e la sua esperienza: come un artista, come un esaltato, come un creatore, senza alcuna distanza tra la sua vita e ciò che ne ha fatto.
Di certo, non basta a spiegare la sua storia. Bisogna pur dire che ci sono molti esaltati che non sono altrettanti Steve Jobs. Il suo valore si legge piuttosto nella sua vita di lavoro. Il suo segno distintivo è stata la tensione continua verso la realizzazione di prodotti eccellenti orientati a trovare e manifestare l'essenziale. Solo questa tensione spiega la sua maniacale attenzione per i dettagli. Ha sempre voluto conoscere tutti i particolari dei prodotti dell'azienda, come ricorda Elliot, e occuparsi di tutto. Il che ha sempre generato un certo timore in chi gli stava di volta in volta accanto, anche perché Jobs non si è mai tirato indietro quando ha pensato che fosse giunto il momento di esprimere le critiche più feroci; ma nello stesso tempo è sempre stato un motivo di entusiasmo per i collaboratori: chi lo ammirava, in fondo, gli era grato di tanta attenzione.

E un fatto è certo, corroborato da decine di testimonianze: chi ha avuto la fortuna di lavorare con lui ha vissuto un'esperienza indimenticabile. Non ha mai smesso di interloquire con gli ingegneri sulle soluzioni tecniche, non ha mai cessato di mettere tutto se stesso nella scelta delle persone da assumere, ha sempre trovato il tempo per mandare una mail di complimenti per un lavoro ben fatto anche all'ultimo collaboratore. Scelse personalmente il marmo di un negozio Apple in California, mandandolo a comprare in Italia, e andò regolarmente a ispezionare lo stato di avanzamento dei lavori: quando si accorse che il marmo si sporcava in seguito al passaggio delle persone, ordinò di rifare il lavoro usando nuovi materiali per fissare il marmo, scelti in modo che non trattenessero la polvere. La sua leggenda era tale che bastò che girasse la voce secondo la quale la sua bibita preferita era il succo di frutta Odwalla per fare di quella marca un successo internazionale.

Ma anche la cura dei dettagli non basta a spiegare Jobs. Quella sua rigorosa attenzione alla qualità dei suoi prodotti si tramutava in una sorta di senso morale molto personale che gli consentiva, contemporaneamente, di vivere disciplinatamente e di pensare contro le regole, o meglio, le abitudini. A cinquant'anni disse agli studenti di Stanford: «Siate autori della vostra vita, non lasciate che gli altri la scrivano per voi». A trent'anni governò il team che progettava il Macintosh con il motto: «non siete la marina, siete i pirati». A scuola era stato tanto ingovernabile da aver rischiato l'espulsione e in un'occasione addirittura la galera. Alla Apple, nei primi anni Ottanta, ai tempi dell'Apple II, escluso dalla progettazione dei prodotti, aveva trovato il modo di imbrogliare l'azienda e di sviluppare un team più o meno segreto con il quale avrebbe creato il Macintosh. E poi avrebbe causato danni enormi alle pur ricche casse della Apple imponendo ai progettisti di togliere la ventola per rendere silenzioso il Mac, pagando quest'idea con cinque mesi di ritardo nella produzione, e imponendo all'azienda di costruire una fabbrica per assemblare il prodotto: era tanto convinto che fosse unico e meraviglioso che non poteva lasciare ad altri il compito di costruirlo.

Aveva ragione sul fatto che il Mac avrebbe cambiato molto più che l'informatica, ma doveva ancora imparare quali regole invece non si possono ignorare. Al suo ritorno alla Apple, la sua conduzione sarebbe stata molto più consapevole. Ma lo spirito non era cambiato: si era semplicemente allargato dalla cura del prodotto, alla cura di tutta l'azienda.

Jobs non è stato un mago. Ha manifestato qualche analogia con un artista, ma non ha fatto arte. Ha accumulato una fortuna considerevole, ma non ha certo fatto l'imprenditore al solo scopo di arricchirsi. Ha avuto insuccessi importanti e significative sofferenze. Abbandonato dai suoi genitori biologici, Joanne Simpson e Abdulfattah Jandali, fu adottato da Paul Jobs e Clara Hagopian, il cui reddito non era tale da consentire loro di mantenerlo senza sacrifici all'università. Ma imparò a mettere insieme, come disse lui stesso, i puntini della sua vita, per comprendere che da ogni difficoltà si poteva uscire con più convinzione o consapevolezza. Certo, gli è andata bene.

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