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Questo articolo è stato pubblicato il 15 giugno 2012 alle ore 12:19.

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Da quanto tempo sentiamo ripetere l'importanza della gestione di informazioni per le aziende? Nell'economia digitale, scartiamo la retorica e moltiplichiamo quel valore per petabytes (miliardi di megabytes): quanto i livelli dei pacchetti di dati disponibili, generati da persone, macchine, sensori, device di ogni tipo. Non c'è passaggio digitale che non lasci una traccia e non vada ad arricchire quella mole di informazioni così imponente da esser stata battezzata Big Data. «Si tratta di un insieme di dati contraddistinti da volume, velocità (tempi di aggiornamento) e varietà.

E che per la maggior parte non sono strutturati, e quindi non possono esser ricondotti a modelli identificabili o sistemi classici di gestione, tipo database», dice Fabio Chiodini, collaboration & business intelligence director di Avanade Italia. «In passato la gestione di una tal mole di dati era confinata in ambito scientifico o militare mentre ora, grazie a mobilità, social network, IT consumerization, è uscita dal guscio e sta muovendo verso scopi di business».

Per capirci: Walmart gestisce più di un milione di transazioni cliente all'ora, Facebook 40 miliardi di foto di utenti. E nel 2013 si prevede che il traffico annuo su internet raggiungerà i 667 exabytes (migliaia di petabytes). Ecco i numeri cui devono far fronte i sistemi di Big Data, che raccolgono le informazioni e le selezionano, per poi passarle all'ultimo miglio dell'analisi. «Integrare ad esempio i dati che arrivano dal CRM con il sentiment manifestato dai clienti sui social media, consente di carpirne le preferenze e i continui mutamenti di gusto».

La ricerca
Le aziende hanno capito l'importanza dei Big Data e vedono ripagati i loro investimenti. Così risulta dall'indagine condotta ad aprile da Wakefield Research per conto di Avanade, che ha coinvolto 569 dirigenti e responsabili dell'area IT in 18 paesi di Nord e Sud America, Europa, Asia e Sud Africa. E che ilsole24ore.com pubblica in anteprima.
Il 73% delle aziende intervistate afferma che gli investimenti fatti per gestire la crescita esponenziale di dati sono stati utili a far crescere il fatturato, sviluppando i canali esistenti (57%) o creando nuove opportunità (43%). E l'84% (in Italia: l'80%) afferma che i Big Data hanno favorito i processi decisionali. Si è giunti a un momento di svolta, e diverse tipologie di dipendenti possono accedere a un numero sempre maggiore di strumenti tecnologici per gestire e analizzare le informazioni. Anche perché - ammette il 57% delle aziende intervistate a livello globale, e il 60% in Italia – negli ultimi 12 mesi questi strumenti disponibili sono aumentati.

Una prima conseguenza è la caduta delle barriere dell'Information Technology. Nell'attività di analisi vengono cioè coinvolte le diverse business unit all'interno dell'organizzazione e i dipendenti preposti a questo lavoro, nel 95% dei casi (100% in Italia), non vengono considerati parte integrante dello staff IT. «Si è capito che l'attività di analisi prima riservata all'IT deve adesso essere esternalizzata a personale di business. E proprio grazie a questa ampia possibilità di accesso alle informazioni – prosegue Chiodini - nel nostro paese il 67% degli intervistati (rispetto al 59% globale) sostiene che oggi i dipendenti coinvolti nei processi decisionali sono più numerosi che in passato».

La complessità della gestione dei dati è però mai doma. La consumerizzazione dell'IT, scioglilingua che si accompagna al crescente utilizzo di smartphone e tablet privati sul posto di lavoro, il continuo aumento di dati creati e condivisi sui social network, la mobilità dei dipendenti e il cloud computing spingono a rivedere e aggiornare le strategie. In Italia il 93% delle aziende confessa ancora difficoltà di analisi (contro l'85% a livello globale).

«Dipende da fattori culturali», spiega Chiodini. «Non si sentono ancora pronte: c'è un po' di reticenza sugli impatti che si possono avere da un punto di vista gestionale, nel produrre dati accurati». Anche perché il 77% sostiene che la propria azienda abbia bisogno di sviluppare nuove competenze per ottimizzare l'uso di queste informazioni (percentuale che in totale scende al 63%). Una lacuna da colmare con la formazione del personale, e in futuro con l'acquisizione di profili specializzati. Nel frattempo i grandi player, da Microsoft a Ibm, continuano ad attrezzare soluzioni che rendano più fruibile la «data economy».

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