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Questo articolo è stato pubblicato il 16 marzo 2013 alle ore 15:10.

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A muoverlo è lo spirito del pioniere, la voglia di conquistare nuove frontiere della mente. Con un lieve accento siciliano che i tanti anni passati in America non hanno cancellato, Silvio Micali, 58 anni, è professore di informatica e lavora al Computer Science and Artificial Intelligence Lab del Mit di Boston dal 1983. Ha raggiunto risultati tali nel campo della crittografia da vincere, primo italiano, il prestigioso Turing Award, l'equivalente del premio Nobel per l'informatica. Oltre ad aver vinto altri premi in passato è stato anche chiamato all'Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti.

Professore, congratulazioni. Risultati straordinari, ma tutti all'estero. Si considera ancora un ricercatore italiano?
Certo, mi considero a tutti gli effetti italiano. Mi sono laureato in matematica in Italia, sono nato nella nostra tradizione scientifica. Poi sono andato già nel 1979 a Berkeley per il dottorato e quindi a Boston, ma è naturale che le cose evolvano. Ed è bene che siano così.

Il settore in cui lavora è considerato pionieristico.
Per me è sempre stato così. Forse ho il mito della frontiera, ma quel che è un privilegio è lavorare in ambiti dove ancora il terreno è magmatico, non si è consolidato. Si costruisce su territori nuovi, si deve inventare tutto. È difficile fare progressi ma i risultati possono essere sorprendenti. Serve curiosità e creatività, altrimenti è inutile fare il ricercatore.

Ha cambiato spesso ambito di ricerca. Perché?
Ogni cinque anni cambio tutto: sono passato dagli algoritmi alla crittografia e poi alle prove interattive sino a questo nuovo concetto di prova e poi ai protocolli con transazioni tra più persone che rispettino segretezza e correttezza del messaggio.

Ha mai pensato di tornare in Italia, magari dopo questo premio?
Ci devono essere le condizioni: non solo la nostalgia. Ho amici cari, mia sorella, mi piace molto la cultura italiana, ma serve un contesto dinamico di ricerca. Non conosco bene la situazione italiana: però sono sempre disponibile a cambiare.

Ha vinto in coppia con un'altra professoressa del Mit di Boston come lei, Shafi Goldwasser, che oltre tutto conosce da molto tempo.
Ci conosciamo e lavoriamo assieme dai tempi del dottorato a Berkeley. È stata anche l'epoca in cui abbiamo cominciato a lavorare su questi temi. Sono contentissimo di aver vinto con lei anche perché, mi permetta la battuta, costruire una teoria dell'interazione da soli non avrebbe avuto senso. E in due ci siamo dati forza per andare avanti malgrado gli ostacoli.

Qual è il lavoro che vi ha fatto vincere il premio?
Sono tre, tutti in ambito crittografico. Uno è quello per avere la codifica di messaggi capace di nascondere ogni informazione parziale sul messaggio stesso. Era una cosa che non si sapeva fare. Una seconda cosa parte da nuovo concetto di prova interattivo ed è diventato estremamente potente e, al di là della crittografia, permette di analizzare problemi di complessità di calcolo. Il terzo è un lavoro sul problema sulla computazione di dati segreti che appartengono a più persone.

I pionieri cambiano la faccia del paesaggio. Il suo lavoro ha cambiato quello della crittografia?
Non solo noi, però sì. Prima crittografia aveva solo il significato più diretto, etimologico: scrittura segreta, cifratura dei messaggi. Adesso è diventata una teoria della computazione in presenza di avversari: un avversario che vuole conoscere il contenuto di un messaggio o addirittura falsificarlo.

Quali sono le conseguenze di questo cambiamento?
L'interazione è alla base anche dell'attività umana, per questo la crittografia è diventata molto importante: se si sa di poter interagire in modo sicuro, senza essere gabbati, ci stimola ad aprirci e comunicare di più con gli altri. Nello specifico questo è il risultato particolare del campo in cui mi occupo: codifica perfetta, prova interattiva e computazione sicura.

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