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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2013 alle ore 09:54.

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«Stavo 60-80 ore alla settimana davanti a un computer, avevo 24 anni e mi sentivo già bruciato. Alla fine mi hanno ricoverato senza sapere bene perché, mancava una diagnosi». Felix Levi, solito talento californiano capo di una startup hi-tech di Los Angeles a poco più di 20 anni, ha fatto della sua malattia un business. Si trovava nel vicolo cieco della dipendenza da mac, telefono, mail; attaccato alla macchina della sua generazione, intesa come hardware e software e insieme meccanismo che permette di fare soldi in poco tempo. Fa dunque quello che molti giovani americani fanno in questi casi: lascia routine e giocattoli, prende la fidanzata e va. Il sabbatico diventa due anni a Koh Totang e un lavoro a Nomads land, vacanze di natura e nulla in un paradiso della Cambogia. Qui nasce l'idea di vendere benessere lontano dalla tecnologia, la promessa di «disconnettersi per riconnettersi». Fonda un'azienda nel giugno 2012, si chiama Digital Detox, disintossicazione digitale: circa 2mila dollari per sei giorni in gruppi da 12 che rinunciano a telefono, laptop, orologi; obiettivo «formattare la mente».

Nella formula commerciale di Levi non v'è nulla di rivoluzionario: si vende lentezza - yoga e meditazione a posto di Facebook e Twitter - e recupero di gesti sempre più rari o perduti: niente blog e microblog, in mano foglio e penna, un giornale di carta. Non manca il contorno pauperista-ambientalista-ritorno-alla-natura: l'acqua è solo quella piovana, la luce è del sole ma a ben leggere questa è la scontata confezione che serve a vendere meglio il prodotto. Parte più interessante della proposta Levi non è disintossicarsi dalla tecnologia in sé - il problema non è il mezzo - ma «dai gigabyte che gli americani ingeriscono ogni giorno». Una bulimia di notizie e spunti che non apre ma ottunde il cervello. «Quando ricevi troppe informazioni non riesci più a pensare liberamente» teorizza Levi che non sembra affatto un offline scettico e disfattista restio all'innovazione e - il più temibile non detto di tutte queste accuse - vecchio luddista moralista amante dello status quo. È un giovane uomo che sa ciò di cui parla, un blogger dell'Huffington Post che di web vive.

Digital Detox è in sintonia col momento: siti e carta stranieri son pieni di articoli sul tema. Senza andare fino in Cambogia, si offre ai tossici di Silicon Valley week-end a 305 dollari nella splendida campagna della California settentrionale. Ci sono hotel che s'inseriscono nel trend digital detox chiedendo ai clienti di lasciare tutti gli apparecchi elettronici alla reception. A Washigton Dc il Quincy Hotel offre l'opzione "be unplugged". A St. Vincent and the Grenadines, Antille, hanno pensato a più sofisticati pacchetti per sconnessi: il cliente deve lasciare a casa tutti i dispositivi, riceverà in cambio un libretto che spiega come andare avanti senza tecnologia, se non ce la fa da solo c'è un coach che dà aiuto extra. Via Yoga, agenzia di Seattle, propone lussuosi pacchetti di digital detox a base di yoga; per i più movimentati, soggiorni per surfisti in Messico e Costa Rica. Il Boston Globe a ogni modo ha pubblicato una guida con dieci indirizzi utili e soluzioni per disintossicare tutta la famiglia.

Il nuovo business pensa anche ai casi più seri, Zeni Cosini senza alcuna forza di volontà: offre loro vacanze "dead zone", la zona morta che non è Stephen King ma posti in cui il telefonino non prende o la connessione è così lenta che desisti e per sfinimento concludi: meglio spegnere; Skyscanner, sito di offerte low cost, dà destinazioni sicure: Death Valley National Park negli Stati Uniti, Kent e Sussex in Gran Bretagna.

Mentre innovatori come Felix Levi monetizzano il contrasto fra FOMO (Fear of missing out, la paura di rimanere esclusi tipica dei webdipendenti) e JOMO (Joy of missing out, all'opposto la gioia dell'oblio), Le Monde riflette. In un commento del 20 aprile dal titolo "Déconnade", il quotidiano francese dà conto dello studio «L'era del digital detox» realizzato dall'agenzia di comunicazione digitale Dagobert secondo cui il 62% dei francesi vuole disconnettersi perché «sente il bisogno di riallacciare i fili con la vita vera e ha paura di essere drogato di Rete».

Perché la disconnessione sarebbe terapeutica? «Questa fetta di popolazione - si afferma nello studio- non ne vuole più sapere di stare a guardare le vite degli altri». Attenzione però a sventolare la bandiera del Nuovo e Anticonformista, avverte Remy Oudghiri, ricercatore di Ipsos e autore di «Déconnettez-vous! Comme rester soi-même à l'ère de la connexion généralisée»: lui che pure ha scritto un saggio sull'emergente gruppo sociale in cerca di disconnessione ricorda che già Seneca, Rousseau e Hermann Hesse celebravano l'ozio e l'interruzione. Nulla di nuovo insomma ma in America c'è chi invoca e auspica una Slow Technology, forte anche delle parole dell'icona web Arianna Huffington, fondatrice dell'omonimo sito famoso in tutto il mondo ora con edizioni europee in Francia, Regno Unito, Italia. Recentemente Huffington ha detto «il bisogno di riconnettersi con noi stessi disconnettendosi dai nostri apparecchi elettronici non è questione da poco in un mondo che ha disperato bisogno di soluzioni creative a diversi tipi di crisi. Un mondo - dice Guru Arianna - con troppi dati, troppe scelte, troppe possibilità e troppo poco tempo che ci constringe a decidere cosa è importante». Un po' come se a un certo punto Steve Jobs da vivo avesse detto «tornate all'aratro».

Negli stessi giorni l'inglese Telegraph si poneva il problema della dipendenza dei più piccoli: Judith Woods racconta che la figlia di 10 anni d'improvviso le ha dato l'iPad dicendole: «Tieni, non lo voglio più, mi deprime, mi sento triste e non so perché». Il gran rifiuto della decenne ha messo la madre davanti al dubbio: noi generazione di genitori middle class abbiamo tanto lottato per non fare crescere i nostri pupi davanti alla tv, e non ci siamo preoccupati dei danni da altro schermo? La strada della madre in ansia s'incrocia con quella di Helen Wright che sul Sun del 7 aprile scrive il suo diario-Bridget-Jones da ex tecnodipendente. Entrambe indicano lo stesso indirizzo: Capio Nightingale Hospital, Marylebone, Londra, reparto Technology Addiction Service.

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