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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2014 alle ore 08:12.
a C'è un paradosso che non riguarda solo la scuola italiana. È quello dell'apprendimento informale, quello che non passa per le tradizionali istituzioni scolastiche, che rappresenta la fonte dell'80% della conoscenza complessiva di ciascuno di noi, ovviamente come media, ma soltanto il 20% della spesa totale per l'istruzione. Si tratta di un dato che copre l'intera vita di una persona, e quindi soprattutto quella che va sotto l'etichetta di "formazione permanente" per gli adulti. Ma lo stesso vale anche per i giovani studenti, che imparano molto più rapidamente e in maniera approfondita se non lo fanno solo sui libri: dal "fare" progetti, più o meno scientifici, al lavorare insieme, dal condividere le conoscenze con i coetanei al contribuire a risolvere problemi, l'apprendimento informale si pone oggi come la nuova frontiera dell'educazione.
L'efficacia di un'istruzione che non passa soltanto dai banchi di scuola, dai libri e dalla lezione tradizionale è stata visibile in questi giorni al Convention Center di Los Angeles, dove 1.800 ragazzi di scuola superiore, tra 14 e 20 anni, giunti da oltre 70 Paesi hanno messo in mostra le loro invenzioni, un migliaio, in ogni campo della scienza e della tecnologia nell'annuale edizione dell'Isef. In palio un totale di 5 milioni di dollari divisi in una marea di premi. Per la cronaca i 75.000 dollari del primo premio sono andati a Nathan Han, 15enne di Boston che ha sviluppato un software "machine learning" che ha scandagliato i database esistenti per studiare le mutazioni del BRCA1, gene legato al tumore al seno, mentre 50.000 dollari ciascuno sono andati a un 15enne tedesco che ha sviluppato nuove funzionalità per smartphone e a un 17enne di Singapore per gli studi su nuovi catalizzatori per batterie.
«Ma i soldi non sono così importanti – sostiene Wendy Hawkins, direttore della Intel Foundation che organizza l'evento annuale –: il vero valore che i ragazzi si portano a casa è la rete di relazioni che instaurano in questi giorni con coetanei appassionati come loro, il confronto con scienziati che li trattano da pari a pari e l'opportunità di poter vincere esperienze di ricerca nel mondo per poter allargare la rete delle loro conoscenze». Per i ragazzi non è un gioco, ma un'esperienza tremendamente seria, pur vissuta con la dovuta spensieratezza. In ogni caso un'esperienza "informale".
La possibilità di "fare la scienza" rimarrà un'opportunità per loro, ma anche per tutti i ragazzi che hanno la possibilità nei laboratori dello loro scuole o nelle aule con i loro professori di mettere in pratica progetti didattici basati sull'esperienza. «A questa età bisogna fare e ancora fare, provare e riprovare, avendo il diritto di commettere errori comprendendoli», afferma Harold Kroto, premio Nobel 1996 per la chimica. «Ma il fallimento non deve diventare una sconfitta personale, rientra nel gioco», gli fa eco un altro Nobel, Robert Horvitz (si veda articolo in pagina).
La scuola deve quindi puntare sempre di più sull'esperienza e sulla laboratorietà, non solo nelle materia scientifiche in senso stretto. «Bisogna ispirarsi a una visione costruttivista del sapere – sintetizza Dianora Bardi, vicepresidente dela Centro Studi ImparaDigitale focalizzato sulla didattica digitale –, nella consapevolezza dell'importanza di un apprendimento attivo (imparare facendo) e collaborativo che trova le basi nella continua contestualizzazione, nel dibattito, nella riflessione individuale e collettiva in un'organizzazione libera per gli studenti, ma scientificamente strutturata dal docente».
«Ogni studente apprende in modo differenziato, unico e soggettivo – prosegue Bardi –: il processo di apprendimento deve dunque essere fortemente orientato al l'azione personalizzata, in cui ognuno può esprimersi liberamente». Già, la personalizzazione è lo strumento che permette di valorizzare passioni e competenze individuali all'interno della scuola, una via favorita anche dalla didattica per competenze.
Ma non è come dirlo. «Le competenze trasversali al di fuori dei curricula personali non sono semplici da riconoscere dal l'istituzione, chiamata a ricondurle all'interno del sistema scolastico», afferma Leonardo Tosi, ricercatore di Indire. Eppure anche le storie dei giovani scienziati italiani presenti all'Isef a Los Angeles raccontano esperienze fatte di maggior coinvolgimento, di motivazione e di gratificazione, meccanismi che si tramutano in passione e in competenza. La cagliaritana Margherita Pinna ha qualche dubbio che proseguirà sulla strada dell'informatica, ma per Giuseppe Dall'Agnese, da Pordenone, il progetto sulle staminali muscolari è stato l'avvio di un percorso che lo porterà a proseguire sulla strada della biologia. Anche il torinese Matteo Giardino, che tra un mese affronterà la maturità, ha già scelto: farà ingegneria chimica al Politecnico di Torino, con il quale ha peraltro collaborato per il progetto di fuel cell microbiologica portato a Los Angeles. Alessio Mazzetto e Alberto Agnoletti, da Udine, non sanno bene cosa faranno, ma intanto il loro integratore contro i disturbi alimentari è in odor di commercializzazione.
In generale i quattro progetti sono nati dentro la scuola, spesso per la passione e con il sostegno degli insegnanti, che hanno saputo accompagnare i ragazzi. «Non c'è dubbio che il docente sia determinante anche nell'ambito informale – prosegue Tosi –: rappresenta il principale fattore abilitante nella trasmissione del sapere, in grado di coinvolgere le competenze esterne dei ragazzi e di ricondurre a verifica tutto ciò che gli capite sotto, che sia formale o informale». Visti i risultati in termini di motivazione, la sfida adesso è che le competenze trasversali siano accompagnate dentro le mura scolastiche finendo per avere un ruolo formale, dalla collaborazione al problem solving. Ed è l'insegnante ad avere il ruolo più importante nel dare un valore concreto a quell'informale che tanta parte nell'apprendimento può avere.
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