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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2011 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 19 aprile 2011 alle ore 09:25.

Sembra che non piaccia a nessuno: la concorrenza è disciplina, confronto, gara. Senza di lei però non c'è crescita. Qualcuno ha voluto dimenticarlo, soprattutto in Italia. Persino alcuni economisti, che pure la considerano una condizione per l'efficienza.
È un errore. Lo studioso francese Philippe Aghion - attento all'evoluzione dell'economia - ha trovato nuove articolate conferme al ruolo della concorrenza nella crescita; e grazie al suo personale contributo, il rapporto Sapir, l'«agenda per la crescita» dell'Unione Europea, ha chiesto per i mercati dei prodotti di tutto il continente «una politica attiva per la concorrenza», diversa dall'attuale approccio che punta solo ad «aprire determinati mercati e reprimere comportamenti anticoncorrenziali». «In futuro - spiegava il documento - sarà indispensabile intensificare notevolmente gli sforzi per accertarsi che i mercati restino o diventino competitivi».
L'innovazione, vera chiave della crescita, non è un processo che possa essere guidato dall'alto. Richiede forze e idee nuove, ed è per questo che il rapporto Sapir invocava a tutti i livelli «misure intese ad agevolare l'ingresso di nuovi soggetti».
Se l'Italia non cresce abbastanza, se ne può dedurre allora che il Paese offra un terreno sfavorevole alle nuove iniziative. È proprio così: né la politica, né il sistema giuridico, e neanche la società le incentivano davvero. La storia dell'economia e della politica economica d'Italia è segnata dall'enfasi sulla protezione delle imprese esistenti, anche se inefficienti, con l'obiettivo fallace di "salvare posti di lavoro".
Accade a volte anche all'estero, è vero; ma questo non può consolarci del fatto che nella classifica della Banca mondiale sul doing business, la facilità di fare e creare impresa, l'Italia sia 80ª al mondo dietro il Vietnam, la Mongolia, il Montenegro e la Bielorussia. Un pessimo risultato, dietro il quale si nasconde un 86° posto nella sotto-classifica sulla facilità di ottenere credito, e un 157° - dietro il Kosovo e prima del Congo - in quella sulla possibilità di far rispettare i contratti. La Tanzania, per citare il primo Paese della poverissima Africa, è 31ª.
In Italia, invece che di concorrenza si è parlato d'altro e si è fatto altro. Si è insistito sulle privatizzazioni e, per dimensioni, il processo di dismissioni è stato il secondo al mondo dopo quello britannico, anche se la qualità lascia a desiderare, dal momento che la mano dello Stato resta forte in molte aziende e molti settori. Senza contare i casi in cui si è semplicemente trasformato un ente pubblico in Spa, o si sono affidati a privati funzioni pubbliche o monopoli. Creare concorrenza è cosa diversa: spesso in Italia «la privatizzazione - spiegano Emilio Barucci e Federico Pierobon in Stato e mercato nella Seconda Repubblica (il Mulino) - ha coinciso con il passaggio di una posizione di rendita di mercato dallo Stato ai privati». Le operazioni in cui si è ceduto il controllo hanno coinvolto - in controvalore - il 31% del totale.
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