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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2011 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 19 aprile 2011 alle ore 09:25.

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In ritardo sulle privatizzazioni e in modo molto discontinuo si è proposta qualche liberalizzazione; e quando non si è agito su spinta di Bruxelles, si è intervenuti in modo un po' squilibrato. Le lenzuolate di Bersani sono così apparse "punitive": erano chiare le rinunce a breve termine che erano imposte, ma non i vantaggi che ciascun settore poteva trarre dalle "liberalizzazioni degli altri".

In Italia si è infine insistito tanto sulla flessibilità. Per quanto sia dolorosa, e ponga una sfida enorme ai sindacati, è difficile dimostrare che per i mercati del lavoro la concorrenza sia dannosa. Da sola, però, la flessibilità fa soltanto male. Richiede un welfare moderno, diverso da quello "mediterraneo", corporativo, dell'Italia che non prevede veri sussidi di disoccupazione, né aiuti al reinserimento.

Va poi affiancata da altre misure: «Le riforme del mercato del lavoro di maggior successo hanno deregolamentato anche i mercati dei prodotti», spiega uno studio sul nostro Paese compiuto per l'Fmi da Martin Schindler, che aggiunge: «Il mercato dei prodotti italiano è tra i più regolati d'Europa, e la loro riforma non ha costi fiscali e rende più semplici ulteriori riforme del mercato del lavoro». Il risultato è che una maggior concorrenza «dovrebbe essere una priorità, in Italia». Un'idea condivisa anche dall'Ocse. Altrettanto urgenti sono le liberalizzazioni dei servizi e delle professioni, da noi come in altri Paesi, a cominciare dalla Germania.

È stata proprio l'influenza del modello tedesco o "renano", male inteso e male interpretato, ad aver spinto la concorrenza in secondo piano. Meglio - si è pensato - puntare alla cooperazione, al "fare sistema". Tutto questo si è tradotto, tra le altre cose, in un mercato finanziario opaco, dominato fino all'esasperazione da rapporti personali: si è alimentato un "capitalismo delle relazioni" elitario e chiuso. Non a caso il Paese è tra i più chiusi agli investimenti esteri, e le imprese non sono contendibili: come avviene anche in Europa, si tende a trasformare in legge un pregiudizio positivo per l'azionariato attuale, indipendentemente dalla sua efficienza, e uno negativo verso i diritti degli azionisti di minoranza, spesso investitori istituzionali che possono rendere dinamico il sistema. Anche con le scalate.

Un sistema diverso non funzionerebbe? È difficile negare che la concorrenza possa creare problemi: procede per tentativi ed errori, e le strade senza uscita costano. Un metodo che garantisca risultati "a priori", però, non esiste e le ricerche empiriche - anche quelle italiane, sulle piccole differenze tra le singole Regioni - sono chiare: meno concorrenza significa meno occupazione, più concorrenza meno inflazione. Qual è del resto il segreto degli esportatori cinesi? Il partito comunista? O forse la concorrenza internazionale che non fa sconti a nessuno?

La verità è che passare da un sistema protetto a uno concorrenziale fa paura. Soprattutto alle élite che non vogliono veder turbati il loro potere e la loro influenza. Occorrerebbe un "grande accordo", politico e sociale: a cavallo del XXI secolo, negli Stati Uniti la competition è stata, secondo Paul A. London, un obiettivo bipartisan, anche se non sempre perseguito con coerenza, come mostra il proliferare di protezioni, monopoli anche "intellettuali", e conflitti d'interesse, soprattutto nella finanza protagonista della recente crisi.

L'Italia è però lontanissima anche da quell'imperfetto modello. Il recente dibattito sulle modifiche all'articolo 41 della Costituzione ha mostrato come il tema resti estraneo alla nostra cultura. «L'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», dice l'emendamento del Governo. «La legge tutela e promuove la concorrenza effettiva nei mercati, difendendo la libera iniziativa economica dei privati e garantendo gli interessi del consumatore o utente», è invece, per esempio, la formulazione proposta dal giovane economista Massimiliano Vatiero, dell'Università della Svizzera italiana. La differenza è stridente.

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