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Questo articolo è stato pubblicato il 11 giugno 2011 alle ore 09:29.

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A poche ore dal voto, Antonio Di Pietro ha sentito il bisogno di precisare che «i quesiti non sono partitici» (leggi politici). E ha aggiunto che il referendum non è l'occasione per 'mandare a casa' Berlusconi. Il leader dell'Italia dei valori ha colto un punto di verità. È chiaro che la battaglia di domani e lunedì sarà tutta intorno al quorum, perciò diventa indispensabile non spaventare quella fetta di opinione che vorrebbe votare nel merito dei problemi, ma teme di essere strumentalizzata.

Giusta preoccupazione, quella di Di Pietro, ma tardiva. È inevitabile che l'esito dei quattro referendum (leggi il nostro dossier) avrà delle conseguenze sul quadro politico generale. Del resto, le firme sono state raccolte con questo proposito e la campagna elettorale è stata condotta con il chiaro intento di assestare un altro colpo a Berlusconi dopo la conquista dei municipi di Milano e Napoli. Per cui il quesito sul nucleare ha il compito di trainare gli altri, soprattutto quello sul legittimo impedimento. E nel complesso i quattro referendum, se dovessero scavalcare il quorum del 50 per cento più uno, sarebbero salutati da tutte le forze anti-governo come un successo straordinario. La prova che il vento soffia davvero nelle vele troppo a lungo afflosciate dell'opposizione.

Tuttavia Di Pietro, che di questa battaglia referendaria è il vero padre, capisce che bisogna essere molto prudenti. In privato alcuni tra i promotori sono pessimisti sul quorum. La soglia è altissima e rischia di esserlo ancora di più se saranno conteggiati i suffragi degli italiani all'estero. Però la posta in gioco vale la candela. Se il quorum sarà raggiunto, Bersani e gli altri del centrosinistra, compreso il cauto Di Pietro, parleranno di vittoria storica contro il berlusconismo. E in un certo senso avranno ragione. Non solo per il legittimo impedimento, una delle più esplicite fra le 'leggi ad personam', ma per l'impatto mediatico che avrebbe il successo dei quattro 'sì'.

Ne deriva che il tentativo di spoliticizzare il voto è abbastanza ingenuo. Come peraltro è poco convincente lo sforzo governativo di dimostrare che la maggioranza non ha nulla da perdere perché non c'entra nulla con la campagna referendaria. In realtà lo scontro in atto è molto duro. E non è fra i sostenitori del 'sì' e i fautori del 'no'. Come accade ormai da molti anni, la vera battaglia è fra chi punta sul quorum e chi privilegia l'astensione. Se i promotori e i partiti che li sostengono riusciranno a spingere alle urne il 50,01 per cento degli italiani avranno vinto, come dimostra l'esperienza del passato. Una quota di minoranza andrà alle urne per votare 'no' a questo o quello dei quesiti (i più controversi sono i due sull'acqua). Ma la grande massa dei contrari giocherà sull'astensione, come sempre. Ecco perché i comitati per il 'sì' vogliono che la gente vada comunque a votare, magari per dire 'no'.

Ed ecco perché i più avveduti fra i referendari invitano i loro seguaci a recarsi alle urne di buon mattino. Sanno che sul piano psicologico le prime rilevazioni sull'affluenza sono cruciali. Se l'affluenza sarà alta, un maggior numero di italiani si sentirà motivato a raggiungere il seggio. In caso contrario, i dubbiosi potrebbero essere spinti ad andare al mare. Berlusconi, annunciando il suo 'non voto', li incoraggia verso tale scelta. Un po' come fece Craxi nel '91 (allora era in ballo la preferenza unica). Ma è anche vero che l'astensionismo di Berlusconi e Bossi è appena suggerito, nel timore di eccitare gli animi contro il governo. Tutti hanno paura di perdere: cacciatori del quorum contro astensionisti.

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