Quella Lettera 22 esposta al Moma, icona che esprime qualità estetica

Illustrazione di Antonello Silverini

Al Moma, mi resi conto che c'era un grande orgoglio industriale rappreso in quella portatile. C'era la sfida che Adriano Olivetti aveva raccolto dall'America del primo fordismo, da lui visitata e analizzata tra il 1925 e l'inizio del 1926, per apprenderne la lezione, ma anche rimodellarla e reinventarla a misura dell'Italia. A Detroit come ad Hartford, nel Connecticut, doveva aveva sede la Underwood, la più grande impresa produttrice di macchine per scrivere del tempo (che poi Adriano avrebbe rilevato poco prima di morire, alla fine del 1959, con un gesto quasi di rivalsa simbolica) aveva avuto modo di osservare un'organizzazione possente ed efficiente. Ma non gli era bastato imitarla e adattarla alle condizioni dell'Italia. L'aveva voluta rimodulare da cima a fondo, creando delle macchine che non fossero soltanto tecnicamente buone, ma anche belle.

L'Italia, che si pose sulla via dell'industrializzazione di massa quando già esisteva nei Paesi economicamente più evoluti, aveva secondo lui il compito di produrre dei beni che non fossero solo utili, ma che riuscissero a comunicare un valore estetico. Nel design, Olivetti vedeva una cifra di civiltà, che era anche un mezzo per restituire dignità e significato al lavoro "in frantumi" della fabbrica fordista. C'era, insomma, una visione potente: il design e la qualità estetica aggiungevano un valore speciale al prodotto, anche quando usciva dalle linee della fabbricazione in grande serie. Con la Lettera 22, Adriano Olivetti dimostrò concretamente che l'italiano può e deve essere la lingua della globalizzazione. Non occorre negare il proprio carattere e diventare altro da ciò che si è per affermarsi nel mondo. Al contrario: il segreto sta nell'essere se stessi fino in fondo e saper perseguire nitidamente la propria missione.

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