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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2011 alle ore 09:39.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2011 alle ore 09:40.

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L'orgoglio di essere italiano - Il secondo Risorgimento (Illustrazione di Marco Marella)L'orgoglio di essere italiano - Il secondo Risorgimento (Illustrazione di Marco Marella)

Insomma, nel corso del 1961, tanti buoni motivi m'inducevano a nutrire un forte senso di orgoglio e fiducia nel mio Paese, pur nella consapevolezza dei numerosi problemi rimasti irrisolti.
D'altra parte, nella ricorrenza del primo centenario dell'Unità nazionale, ero portato a riconoscere, senza per questo indulgere alla retorica, come fosse stata un'impresa storica straordinaria, considerate le difficoltà obiettive in cui era avvenuta, quella conclusasi con l'indipendenza e la costituzione di uno Stato unitario. Tanto più che, essendo fra i collaboratori della Mostra storica dedicata, nelle sale di Palazzo Carignano, alla rievocazione del Risorgimento, mi ero trovato a rivivere quegli eventi, per così dire in "presa diretta", attraverso la raccolta e la consultazione di alcuni significativi documenti dell'epoca.
In quelle stesse settimane avevo avuto modo di prendere visione, con un salto nel tempo di cent'anni, delle più recenti realizzazioni del nostro Paese messe in vetrina nell'Esposizione Internazionale di "Italia '61", inaugurata ai primi di maggio. Il giudizio lusinghiero che ne avevo riportato era dovuto anche al fatto che l'allestimento dei vari padiglioni fosse opera dei nomi più prestigiosi dell'architettura italiana. In particolare, notevole ammirazione riscuotevano il Palazzo del Lavoro, firmato da Pier Luigi Nervi, un gigantesco parallelepipedo con 16 ombrelli metallici e pilastri alti più di 20 metri, e un autentico gioiello come il Palazzo a Vela, in cemento armato ma dall'aspetto quasi etereo.

Un ultimo motivo, ma certo non secondario, che m'induceva a confidare nel futuro del nostro Paese, era il convincimento che si sarebbe rafforzato il senso di appartenenza e d'identità nazionale degli italiani, incontrandosi e conoscendosi non più nei campi di battaglia. A Torino e nella sua "cintura" stava infatti affluendo, in cerca di lavoro e di una sorte migliore, una massa d'immigrati. Nel 1961 erano approdate più di 60mila persone, provenienti in gran parte dal Sud; e nel biennio successivo questo fenomeno avrebbe assunto dimensioni ancora più imponenti.
Beninteso, non credevo che sarebbe subito avvenuta un'integrazione dei nuovi arrivati. Ma nell'ambiente culturale torinese, di orientamenti liberal-progressisti, che frequentavo, prevaleva l'opinione che istituzioni pubbliche, scuola e giornali avrebbero assecondato una civile convivenza fra piemontesi e meridionali. In realtà, a favorire gradualmente un clima di comprensione e solidarietà fra due differenti universi fu soprattutto l'esperienza comune di lavoro maturata in fabbrica, nell'ambito di un'organizzazione fordista della produzione che, non solo alla Fiat, stava livellando anche le mansioni dell'"aristocrazia operaia" torinese d'un tempo. Il resto, lo fecero le parrocchie nella vita collettiva dei quartieri.

In sostanza, il motivo preminente della mia fierezza di allora, quale cittadino italiano, e della mia profonda fiducia nell'avvenire, analoga d'altronde a quella di molti miei coetanei, consisteva per lo più nell'importanza cruciale che attribuivamo alla nuova vocazione industrialista del nostro Paese e alle sue proiezioni modernizzatrici. Ritenevamo che il mondo dell'impresa e del lavoro, purché convogliato su traiettorie più dinamiche, e con un valido modello di relazioni industriali (come quello olivettiano), avrebbe svolto una funzione demiurgica: avrebbe potuto trasformare non solo l'economia ma la società italiana eliminando man mano il dualismo fra Nord e Sud, e creando nuove risorse per il progresso civile e la copertura di esigenze di carattere collettivo. E credevano che in tal modo si sarebbero anche rafforzate le fondamenta del sistema democratico e ampliati i diritti di cittadinanza sociale.

D'altronde, si era alla vigilia della svolta verso il centro-sinistra, avallata - così si pensava - dalla nuova America di Kennedy. E molte aspettative suscitava l'idea di una programmazione che coniugasse keynesismo e Welfare con una "politica dei redditi". Più tardi, si dirà che si trattava di un "libro dei sogni".
Eppure, a ripensarci adesso, il fatto che allora credessimo, in tanti della mia generazione, nella validità di una strategia riformista "lib-lab", quale strada maestra per il futuro del nostro Paese, non era un peccato di gioventù. Poiché essa si ripropone, sia pur con le debite varianti, ai giorni nostri.

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