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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2011 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2011 alle ore 06:39.

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La doccia fredda del 3-3, testa pelata di Uwe Seeler e l'incubo di un sorteggio per decidere quale squadra sarebbe andata in finale. Pochi secondi ancora e il 4-3 di Gianni Rivera, provvidenziale, liberatorio, risolutivo. Poi il triplice fischio dell'arbitro, gli abbracci con mio fratello e i miei genitori e mia nonna, i cori dei vicini. Ecco come sono diventato italiano: così subitamente, così fieramente, così innocentemente, che non sono mai più riuscito a esserlo nello stesso modo.
A ritrovarle oggi su YouTube - imperdonabilmente convertite dal bianco e nero al colore - le immagini di quella notte sembrano provenire da un passato remotissimo. E tendono inevitabilmente ad assumere, oltre ai colori morbidi dell'Azteca, i colori facili della nostalgia. Nostalgia per la telecronaca di Nando Martellini, sobria anche quando esclamativa («che meravigliosa partita, ascoltatori italiani, non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono»).

Nostalgia per l'abbracciarsi dapprima composto degli azzurri sul campo, poi sempre più appassionato dal gol di Riva al gol di Rivera, come sentendo che una singola notte faceva storia: ma un abbracciarsi tra loro e per loro, non in favore di telecamere, per gli abbonati di Sky o le fidanzate veline o i bebè col succhiotto. Nostalgia per calciatori formidabili, ma uomini normali: non palestrati, non tatuati, di quelli che a incrociarli alla mattina sull'autobus sarebbero parsi travet.
Verso le due di notte devo essere ritornato a dormire. Senza prendere parte ai festeggiamenti per le strade, i primi di un copione nazional-popolare destinato periodicamente a ripetersi nei decenni successivi. Ero allora troppo piccolo per capire in che senso la notte messicana faceva storia d'Italia. Per rendermi conto che quei calciatori azzurri, al pari dei miei genitori, erano venuti al mondo in tempi duri, a ridosso della Seconda guerra mondiale o durante la guerra stessa. Che erano cresciuti a pane e pallone negli oratori della provincia italiana anni Cinquanta. Che si erano fatti adulti nell'Italia del "miracolo economico", strano impasto di lavoro e di fede, di solerzia e di ignoranza, di politica e di fortuna.

Ero troppo piccolo per riconoscere in Italia-Germania 4-3 lo spessore che un sociologo, Nando Dalla Chiesa, avrebbe saputo restituirle in un libro di trent'anni dopo, La partita del secolo. Troppo piccolo per misurare, ad esempio, l'importanza dell'enzima friulano non soltanto nella squadra schierata in campo, ma anche in panchina: oltre a Burgnich, goleador improbabile, il portiere di riserva Dino Zoff e l'allenatore in seconda Enzo Bearzot, renitenti eroi del futuro. Troppo piccolo per cogliere il valore della presenza di quattro giocatori del Cagliari - Albertosi, Cera, Domenghini, Riva - nella formazione titolare dell'Azteca: un Cagliari fresco di scudetto, a significare che il Sud degli emigranti era ormai terra d'accoglienza per campioni nati e cresciuti nel profondo Nord.

Eppure qualcosa capivo anch'io, o almeno intuivo. Intuivo che cosa poteva voler dire, per l'Italia, avere battuto la Germania. Nulla sapevo degli immigrati meridionali che ubriachi di gioia e di sarcasmo si riversarono nottetempo nelle vie di Amburgo e Colonia, Monaco e Francoforte. Ma dei tedeschi sì, qualcosa sapevo. Di quei tedeschi che «in tempo di guerra» (come raccontava mia madre) avevano spinto il mio nonno ingegnere a dimettersi dall'Italsider e a sfollare lontano, per paura del lavoro coatto in Germania. Gli stessi tedeschi che avevano costretto il mio nonno medico - e mio padre bambino - a rintanarsi come topi per scampare alla deportazione in Polonia, al treno merci per Auschwitz.

Avrei capito dopo, negli anni, che una partita di calcio - foss'anche la "partita del secolo" - non poteva né doveva vendicare la frustrazione esistenziale degli emigranti, il rancore antico degli sfollati, meno che mai il dolore rappreso dei sopravvissuti. Avrei imparato che le colpe dei padri non ricadono sui figli, e che un'Europa meravigliosamente unita prometteva di tenere insieme i nipoti degli amici come quelli dei nemici. Avrei mandato a memoria i versi di Dante su Ulisse, avrei pianto sulle lettere dei condannati a morte della Resistenza, avrei assaporato uno per uno gli articoli della Costituzione repubblicana. Avrei imparato, insomma, l'orgoglio di sentirmi italiano anche per ragioni migliori che il fascino di undici maglie azzurre, il brivido di un pallone in fondo alla rete, la vertigine di una coppa alzata verso il cielo.

Ma questo fu dopo, molto dopo il 18 giugno 1970. Perché la notte dell'Azteca consegnò me e mio fratello a un'ebbrezza calcistica che non potè certo spegnersi quando - battuta l'Italia dal Brasile - il televisore in affitto vide scadere il suo permesso di soggiorno, e il tavolo in formica gialla conobbe nuovamente lo squallore del garage. L'autunno del '70 fu per noi quello del primo album di figurine Panini. Con la faccia grave del nostro idolo, Gigi Riva, e la scheda biografica che recitavamo come un credo: «Nato a Leggiuno, in provincia di Varese, il 7 novembre 1944...».

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