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Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2013 alle ore 07:39.

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Ora che Bersani si appresta a salire al Quirinale, ci si interroga sulla "convenzione" per le riforme, vale a dire la forma concreta di quel doppio binario o doppio registro parlamentare in cui fin dall'inizio si è cercato di vedere una delle chiavi risolutive della crisi. È l'unica proposta emersa nel corso delle consultazioni, l'unica a cui agganciare un'ipotesi di accordo a largo spettro. Che potrebbe, chissà, anche comprendere il nome del successore di Napolitano.

«Convenzione» è termine che allude a esperienze del passato, per la verità poco positive: la Bicamerale degli anni Novanta era a suo modo una "convenzione", ma sappiamo come è finita. Più volte si è parlato dell'opportunità di affiancare alla normale attività parlamentare un'assemblea costituente, incaricata di redigere in tempi stretti una bozza di riforma costituzionale.

L'organismo suggerito da Bersani, aperto anche a «personalità esterne», è parente stretto delle bicamerali del passato: destinato a mettere a punto in un anno un progetto riformatore che il Parlamento voterebbe in base al principio "prendere o lasciare". Ignorando i precedenti poco incoraggianti, lo schema sembra oggi l'unica carta ragionevole per tentar di sbloccare la paralisi. Fermo restando che a ieri sera il presidente pre-incaricato non disponeva di numeri affidabili per andare alle Camere. In apparenza quindi il suo tentativo parrebbe non avere sbocchi. Tuttavia il filo sottile della "convenzione" costituisce uno spicchio di novità. Soprattutto perché Maroni vi si è riconosciuto con una certa decisione. E la Lega è pur sempre la principale speranza di Bersani, dopo il fallimento del lungo sforzo di seduzione dei Cinque Stelle.

Maroni, che non vuole altri esecutivi tecnici, è un obiettivo alleato del segretario del Pd nella lotta contro il tempo per evitare il «governo del presidente», cioè lo scenario non politico ma istituzionale. Ma basta questo per trovare i fatidici numeri? O siamo in presenza di un andirivieni di corto respiro in cui manca la voce del principale giocatore, Berlusconi? Lo sapremo presto, anche perché la "convenzione" ha bisogno di precise condizioni per essere credibile. La prima: deve essere una strada per "legittimare" i vari gruppi parlamentari. L'assenso di Berlusconi è senza dubbio subordinato a questa prospettiva di legittimazione finale di se stesso. Senza un tale impegno non è verosimile che la convenzione possa lavorare in serenità e che le sue proposte siano recepite dalle Camere.

Ma è plausibile oggi questo salto verso la «coesione nazionale» tante volte chiesta dal capo dello Stato? Non è chiaro. Certo, Bersani è disposto a offrire tutte le assicurazioni del mondo pur di essere mandato in Parlamento da Napolitano. Ma forse occorrerebbe un più solenne e trasversale consenso intorno alla convenzione. Una solennità che dovrebbe fornire la cifra dell'operazione ed esprimere un primo gesto di riconciliazione. Per ora siamo lontani.

In secondo luogo, l'intesa dovrebbe portare con sé una stretta di mano fra le maggiori forze sul nome del presidente della Repubblica. Non è verosimile che da un lato si crei una mini-assemblea costituente e dall'altra ci si dilani sull'elezione del capo dello Stato. Ed è ovvio che l'accordo dovrebbe riguardare una figura con le stesse qualità di equilibrio e di sensibilità mostrate negli anni da Napolitano. Una figura da eleggere alla prima votazione. Anche qui finora molte parole e pochi fatti.

Terzo, una dichiarazione esplicita dovrebbe venire anche da quei gruppi (Lega o altri) che vogliono orientarsi all'astensione o all'appoggio esterno per consentire la nascita del governo Bersani. La soluzione è ardita e comunque debole, non può passare come un sotterfugio opaco. Non sarebbe il modo migliore per garantire la compattezza del Pd.

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