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Economia Aziende

Gianfelice Rocca: «Svolta necessaria per evitare il declino»

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2010 alle ore 08:05.

«Vede? Prima la Cina, poi l'India e il Brasile. Il mondo ormai si muove così».
Gianfelice Rocca indica un grafico. Mostra gli ordini 2010 divisi per paese di una delle controllate di Techint. Osservando gli istogrammi vediamo che la ripresa c'è ed è guidata soprattutto dai mercati emergenti. Un pò come accade per il resto dell'economia italiana. «Crisi alle spalle? Io credo che alle condizioni precedenti non si tornerà più». Il presidente di Techint, 62 anni, tra i leader globali per siderurgia, energia e infrastrutture, mostra un moderato ottimismo sulle prospettive a breve dell'economia italiana, anche se a suo avviso nel medio termine la sfida è tutt'altro che vinta.

«Vedo una ripresa a scatti – spiega – e nei prossimi mesi è probabile un rallentamento legato al raffreddamento dell'economia cinese. Mi pare difficile procedere con un +54% di aumento di vendite di auto come è accaduto nei primi cinque mesi dell'anno». L'uscita dalla crisi, tuttavia, non potrà essere gestita con gli strumenti noti. Rocca vede il mondo avviato verso una «nuova normalità». dove il baricentro dello sviluppo si sposta verso l'Asia, e sarà l'onda della demografia a definire i mercati del futuro. «Da questo punto di vista sarà l'Europa ad avere i maggiori problemi: bassa natalità, restrizioni dei bilanci pubblici, consumi ridotti non rappresentano certo un volano per lo sviluppo. Ma sull'export possiamo giocare un ruolo importante». L'Italia, da questo punto di vista, ha ancora chance rilevanti. «Per la prima volta dal dopoguerra la nostra manifattura, pur in un momento di grande difficoltà, è riuscita in molti settori a migliorare le proprie quote di mercato senza l'aiuto di svalutazioni competitive. Lo spazio per noi esiste ancora». Spazi possibili – chiediamo – anche con un sistema produttivo così polverizzato? «L'architrave è rappresentata da quelle 6-700 medie aziende che rappresentano i motori del nostro "jumbo". Sono realtà dinamiche, in molti casi leader nelle rispettive nicchie di mercato, capaci di trascinare con sè cluster di imprese e interi distretti. Nell'era di internet, con la fluidità massima nel trasferimento delle informazioni, l'innovazione può essere anche di tipo "combinatorio", mettendo cioè insieme in modo creativo pezzi di tecnologia o brevetti diversi. In questo noi italiani siamo ancora molto bravi».

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Un futuro rosa, dunque, per la nostra manifattura? In realtà Rocca vede all'opera due forze distinte: da un lato la spinta alla modernizzazione e la voglia di entrare nella competizione globale; dall'altro le istanze corporative, la conservazione dei vecchi schemi, considerati inadatti nei prossimi anni. «Prenda gli ammortizzatori sociali. In questi mesi si riduce la Cassa Integrazione ordinaria, mentre si verifica il boom della Cigs e della Cassa in deroga. Questo significa che siamo di fronte a situazioni anomale, che però continuiamo ad affrontare con gli strumenti tradizionali, buoni per gestire una crisi temporanea, seguita da un recupero. Il problema è che non sarà più così. Serve una riforma radicale del sistema, flex-security significa offrire garanzie e tutele senza però difendere ogni singolo posto di lavoro». L'obiettivo, spiega Rocca, è quello di permettere un travaso di occupazione dai settori in crisi a quelli in via di sviluppo, come a suo avviso hanno capito i sindacati in Germania. «La nostra esperienza lì è positiva: i sindacati hanno capito che esiste un trade-off da gestire, che non tutte le attività sono difendibili sul piano globale. Si difende invece il valore aggiunto del paese, puntando sui settori in crescita e consentendo alle aziende di gestire le fabbriche con flessibilità». E in Italia - chiediamo - il sindacato opera così? «Solo in parte. Credo che stia accadendo su base aziendale, con passi avanti importanti nella contrattazione decentrata. Il contratto nazionale deve però contare sempre meno nell'organizzazione concreta degli stabilimenti. Io vedo in prospettiva un cambiamento epocale nelle relazioni industriali. Il caso Fiat è un esempio, ma il trend è in atto da tempo. Noi tutti cerchiamo di inserire in fabbrica la qualità totale, nuove forme di logistica, strumenti di flessibilità per gestire i picchi produttivi e i momenti di vuoto. In Germania, ad esempio, io posso "girare" gli straordinari in ore di permesso o di ferie successive, senza un aggravio immediato sui costi aziendali. Questi sono strumenti utili, in prospettiva direi indispensabili». Delocalizzare - chiediamo - è la risposta più efficiente dal punto di vista economico?

«Io credo che l'Italia non possa vivere di sola "testa". L'ipotesi di avere qui ricerca e design e altrove le fabbriche non sta in piedi. È la produzione il fulcro per sviluppare e mantenere le competenze sul territorio. Prendiamo Torino e l'auto. Lì abbiamo la meccanica, il design, l'università. Tutti elementi sviluppatisi grazie alla produzione locale. Il problema è il mix, cioè capire quali siano le produzioni a valore aggiunto che possono restare qui, quelle per cui il costo del lavoro non è la variabile principale». Tra sviluppo e declino, tuttavia, Rocca identifica nelle scelte della politica una della variabili chiave. Senza una modernizzazione rapida dello stato, spiega, il destino è segnato. «Il federalismo deve essere organizzativo, non solo fiscale. Disarticolare lo stato centrale e le sue inefficienze è la via maestra per ridurne i costi. In parallelo dovrà scendere il peso del fisco sul lavoro». L'altro aspetto chiave del federalismo è quello di collegare la tassazione al servizio ricevuto. È il modo migliore per creare responsabilità negli amministratori e una forma di controllo diretta da parte dei cittadini». Obiettivi possibili o solo speranze? La stessa Lega che spinge il federalismo, osserviamo, è però schierata a difesa delle produzioni nazionali del Made in Italy "duro e puro", vuole i dazi contro i cinesi. Sarà globalizzazione o difesa dell'esistente? «Vedo davanti a noi un lungo e faticoso periodo di transizione. In ciascuno di noi, in fondo, convivono queste due anime. Protezione e corporativismo da un lato, cultura globale dall'altro. Non è facile individuare nettamente gli schieramenti politici o economici pro o contro. Chi prevarrà? Sinceramente non saprei».

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