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Economia PMI

Per le Pmi la miglior difesa è l'attacco

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2010 alle ore 08:24.

«Sorry, ma a questo prezzo compriamo ben tre macchinari in Cina». Il momento della verità arriva quando, calcolatrice alla mano, il potenziale cliente americano converte il preventivo dall'euro al dollaro. È successo di recente ad Alberto Albertini, direttore marketing di Italpresse di Capriano del Colle in provincia di Brescia, che produce impianti di pressatura per l'edilizia e il settore automobilistico. «Siamo riusciti a tenerci ben stretti i clienti già fidelizzati, che non guardano solo al costo, ma puntano su innovazione e qualità. Agli altri, almeno per ora, abbiamo dovuto rinunciare».

Alta tensione
Sono tempi difficili per le Pmi italiane, vittime del fuoco incrociato tra Washington e Pechino che giocano la carta della svalutazione delle loro monete e contribuiscono a rafforzare l'euro. Una moneta unica più cara danneggia le esportazioni, ma favorisce le importazioni di materie prime, energia e semilavorati. Un duro colpo, però, se si pensa alla vocazione all'export delle imprese italiane. Particolarmente colpiti sono i settori tradizionali del made in Italy, come la meccanica, il tessile, le calzature, l'alimentare e l'arredo. Con un occhio al tasso di cambio e un altro agli obiettivi di fatturato, i "piccoli" si rimboccano le maniche e si ingegnano per difendersi e restare competitivi sul mercato. Ma al di là di soluzioni temporanee la strategia di svolta è l'internazionalizzazione produttiva. Anche perché secondo gli analisti dovremo imparare a convivere con un euro forte (oltre 1,40 sul biglietto verde) almeno fino alla fine del 2011.

Come reagiscono le Pmi di fronte all'emergenza euro? C'è chi decide di restare "nella tana del lupo" e di fare squadra. È il caso di dodici aziende fiorentine di pelletteria di alta gamma, tutte con tipologie diverse di prodotti, sbarcate cinque anni fa a New York sotto l'ombrello del consorzio "Italian Leather System". «Due volte all'anno affittiamo un loft sulla quinta strada e presentiamo qui le nostre collezioni – spiega il direttore del consorzio Paolo Cipriani – e tutto avviene in un'ottica di sistema e di garanzia della qualità».

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L'unione fa la forza
La guerra delle valute porta alla ribalta anche il ruolo dei consorzi per le esportazioni. Federexport ne riunisce 110 in rappresentanza di 3500 imprese. Spesso, però, al di là del fronte comune ufficiale si costituiscono veri e propri gruppi di acquisto per materie prime o per assicurarsi liquidità in una moneta più conveniente come il dollaro. «In un momento come questo l'individualismo non paga – sottolinea il vicepresidente nazionale di Federexport Luciano Brandoni – fare massa critica è indispensabile se si vuole sopravvivere».

Altri riescono a scongiurare il rischio di cambio facendosi pagare in euro. Una prassi che sta prendendo piede nel settore dell'impiantistica per esportazioni in Paesi tradizionalmente più vicini all'Italia, come l'Argentina o il Messico. Nel settore calzaturiero, che esporta l'80% della produzione, c'è poca voglia di scherzare. «In questo periodo è innegabile che abbiamo maggiori difficoltà di vendita – dice il presidente dell'Anci, Vito Artioli –. Certo ci sono varie strade da percorrere, compresa la possibilità di acquistare le tomaie all'estero e poi realizzare il montaggio delle scarpe, vero fiore all'occhiello del made in Italy, qui da noi. Ma non bisogna mai abbassare la guardia sulla qualità». Anche il settore del legno fa i conti: «In soli tre anni – dice Rosario Messina presidente di Federlegnoarredo - solo negli Usa abbiamo perso un miliardo di euro in esportazioni».

Alcune aziende fanno di necessità virtù, come la Ilar Spa, conosciuta all'estero per il limoncello con il marchio Pallini. «Esportiamo l'80% della nostra produzione, in particolare negli Usa e il momento è difficile. Questo però ci ha portato a migliorare la nostra capacità di risparmio, intensificando l'automazione della linea produttiva», racconta la vicepresidente Micaela Pallini.

Non solo esportazioni
Al di là delle soluzioni per tamponare l'emergenza la vera tendenza riguarda la strategia. Se l'export non paga più, sempre più spesso le aziende che possono permetterselo decidono di fare il grande salto e spostare la produzione all'estero per avere un avamposto su quel mercato. Una sorta di "copertura naturale" dai rischi di cambio, che accomuna l'area del dollaro con quella dello yuan cinese. «Così capita spesso – sottolinea Aniello Musella, direttore dell'ufficio Ice di New York – che l'importatore diventi il partner per predisporre un'attività negli Usa».

Chi invece lo stabilimento ce l'ha già, se riesce punta a intensificare la produzione. «Siamo una sorta di multinazionale tascabile, perché abbiamo già un impianto in Colombia e uno in Romania – dice l'a.d. di Mancini Spa, Mario Mancini, che guida anche la piccola industria delle Marche – in questa situazione stiamo pensando di produrre il più possibile in Sudamerica per essere presenti sul mercato locale senza penalizzazioni sul cambio». Una maggiore internazionalizzazione produttiva riguarda anche la Cina, come conferma il direttore dell'ufficio Ice di Pechino, Antonino Laspina. «Più Cina per la Cina – dice – sembra essere la tendenza in atto: se in passato si sbarcava alla ricerca di fattori produttivi convenienti, oggi si produce qui per rivolgersi al mercato cinese».

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