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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2010 alle ore 09:27.

Tassi di interesse, valute e moneta
La dinamica dei tassi si fa facendo più variegata, in presa diretta con le tendenze dell'economia reale. La crescita in Usa è debole, intorno al 2%, la disoccupazione non scende (il che è costato caro al Presidente Obama), la politica di bilancio è ipnotizzata dal deficit all'11% del Pil e quindi l'unica palla in campo è la politica monetaria. Non è sicuro che la fleboclisi mensile di tanti miliardi di dollari di liquidità aggiuntiva (acquisti di titoli da parte della Fed, con il torchio elettronico che lavora senza tregua) farà guarire il paziente, ma vale la pena tentare. Tanto più che gli ultimi dati sui saldi finanziari degli operatori privati -famiglie e imprese - confermano che queste e quelle scoppiano di salute. Le imprese sicuramente (la loro situazione finanziaria descrive un surplus che è il più alto del dopoguerra); le famiglie, le cui finanze erano più fragili, stanno di buona lena ricostituendo i loro risparmi (oggi il loro surplus finanziario - risparmi meno investimenti in case - si può stimare attorno al 2% del Pil, il più alto da 25 anni), ma devono tener conto del fatto che si tratta di una lunga lena: il passato indebitamento era enorme e il deleveraging dovrà continuare per un buon tratto di tempo. In ogni caso, le disponibilità finanziarie esistono e, specie per le imprese, le polveri della spesa non sono bagnate: appena al cavallo torni la voglia di bere, l'acqua è abbondante.
In Europa, la buona salute dell'economia tedesca è principalmente "responsabile" delle tensioni sui tassi a breve che si sono manifestate ultimamente. Certamente, i dati di fondo della moneta continuano a rimanere espansivi. Un mezzo punto in più sui tassi a breve, quando questi erano schiacciati ai minimi storici, non compromette certo la ripresa, il buon andamento dei mercati azionari e le massiccie emissioni di obbligazioni limano il costo del capitale con i tassi a lunga (sia per i governi sia per famiglie e imprese) che rimangono ridottissimi. Nel panorama complessivo delle condizioni monetarie l'unica fonte di restrizione sta nel cambio dell'euro, che si è rafforzato. Un fattore, questo, che consiglierà prudenza quando l'exit strategy della Bce dovesse procedere a ulteriori passi.
In campo valutario, la debolezza del dollaro è fisiologica e non patologica. Gli Stati Uniti torneranno a espandersi e, nel gioco dei determinanti del tasso di cambio, i muscoli dell'economia compenseranno i timori (infondati) di inflazione e il differenziale dei tassi di interesse. Intanto, le valute degli emergenti (si veda il grafico) si sono apprezzate più di quelle dei paesi emersi. E questo, malgrado i titoli esagitati sulle guerre valutarie, è un buon contributo al riequilibrio dell'economia internazionale.
Indicatori reali
Non è una ricaduta nella recessione ma una semplice pausa della ripresa. La lettura propizia dei dati congiunturali fornita dalle «Lancette» di ottobre ha trovato conferma negli indicatori usciti nell'ultimo mese.
La fiducia nell'Eurozona è salita ancora in ottobre ai massimi da dicembre 2007 ed è di 4 punti sopra la media. In Germania è al top dal 1991, l'epoca del boom da Riunificazione.
Ovunque l'attività manifatturiera si è fatta più vivace e l'afflusso di ordini è più copioso. Negli Stati Uniti il Pmi (Purchasing managers index) è balzato a 56,9, massimo dal maggio scorso (ordini a 58,9 da 51,1; produzione a 62,7 da 56,5). In India è aumentato a 57,2 da 55,1 e in Cina a 54,7 da 53,8. In Eurolandia è salito a 54,6 (da 53,7), con quello tedesco a 56,6 (da 55,1). L'italiano è migliorato a 53,0 (da 52,6), grazie a produzione, salita ai ritmi più alti degli ultimi tre mesi (55,7 da 53,6), e ai nuovi ordini per l'export (54,3 da 52,2).
Nel terziario la dinamica è più variegata, ma comunque positiva. Il Pmi è salito a un robusto 54,3 in Usa, mentre è sceso a 53,2 nell'Eurozona, con Germania a 56,0, Francia a 54,8 e Italia a 51,0.
Il traino viene sempre dalle economie emergenti, che viaggiano a ritmi tra il 4% e il 10% e che forniscono orami oltre i due terzi dell'espansione globale. Questa secondo le ultime stime dell'Fmi non supererà il 4% il prossimo anno, con una revisione all'ingiù di mezzo punto e una frenata concentrata nei Paesi avanzati. Le zavorre del credito selettivo, dell'alta disoccupazione e del risanamento dei conti pubblici rimangono pesanti. In queste condizioni anche le previsioni navigano a vista e vengono continuamente aggiustate. E le probabilità che il prossimo ritocco sia all'insù sono maggiori di quelle che sia all'ingiù.
Inflazione
Nonostante il rialzo delle materie prime, con l'indice Economist in dollari degli input industriali che è di un nulla sotto il top pre-crisi e il petrolio è ben oltre 80 dollari a barile, la dinamica dei prezzi al consumo rimane contenuta. La sua lievitazione (in ottobre all'1,9% annuo in Eurolandia e al 2,0% in Italia) riflette il peggioramento delle ragioni di scambio, a favore delle nazioni esportatrici di materie prime e a scapito di quelle importatrici. Non innescherà però rincorse: troppa è la capacità inutilizzata, sia nel capitale sia nel lavoro.
fabrizio@bigpond.net.au
l.paolazzi@confindustria.it
I
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