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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 16:32.

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«Il tessuto economico è stato nel periodo dell'Unità d'Italia uno degli elementi capaci di creare coesione e cementare il paese. Anche oggi il rilancio può partire da qui, a patto che il contesto sia capace di determinare le condizioni adeguate». La riflessione è di Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea all'Università Bocconi di Milano, uno dei relatori del convegno sul tema della costruzione dell'Italia e del contributo degli esuli in Piemonte, organizzato ieri a Torino dal gruppo regionale della Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, in occasione delle celebrazioni del 150° dell'Unità d'Italia.

L'incontro, che è a metà strada fra quello che si è svolto di recente a Firenze e il convegno nazionale che si terrà il 2 aprile a Roma, in una sorta di viaggio fra le capitali d'Italia, ha posto al centro dell'attenzione il "caso Piemonte", «mecca degli esuli – spiega Sandro Buzzi, presidente piemontese della Federazione –, oltre 20mila persone, che arrivarono da varie parti d'Italia dopo il drammatico esito degli eventi quarantotteschi, grazie al clima di tolleranza e apertura di un regime liberale, garantito dallo Statuto Albertino, e dalla prosperità sotto la guida di Cavour».

Torino, all'epoca, divenne la capitale morale d'Italia, prima ancora che quella politica, una città di grande fermento intellettuale e, per questo, punto di incontro di personalità eccellenti e palestra di formazione della classe dirigente.

«Sono passati 150 anni – osserva Maurizio Sella, presidente della Banca Sella – ma i problemi di allora non sono tanto diversi da quelli di oggi. Anche negli anni dell'unificazione, l'Italia era afflitta dal deficit ed era centrale la questione dell'istruzione e della formazione dell'intelligentia necessaria a reggere le sorti della nazione. Allora furono in grado di creare una squadra capace di portare a un grande risultato. Così anche oggi, dar vita a una squadra efficace è la risposta per rendere il migliore sevizio al nostro paese». Prosegue Berta: «Dalla rivalutazione dell'esperienza risorgimentale arriva un messaggio forte. Torino, negli anni Sessanta dell'Ottocento, era una fucina di innovazione. Occorre riconquistare l'atteggiamento di apertura dell'epoca sia verso i confini nazionali che verso l'estero».

In platea, a raccogliere la riflessione di storici ed esponenti del mondo economico (oltre a Berta e Sella hanno portato un contributo Ester De Fort, Vittorio Marchis, Enrico Iachello, Nerio Nesi della fondazione Cavour e Gian Savino Pene Vidari, moderatore), erano presenti, fra gli altri Gianluigi Gabetti, presidente della Giovanni Agnelli e C. Sapaz e membro del Cda di Exor, Giancarlo Cerutti, amministratore delegato del gruppo Cerutti e presidente del Sole 24 Ore, Giuseppe Donato, presidente di Skf Italia di recente nominato alla guida del Centro estero per l'internazionalizzazione del Piemonte, Vittorio Ghisolfi, presidente M&G Finanziaria e vice in Federchimica, Bruno Ceretto dell'omonima azienda vitivinicola, Carlo Giuseppe Maria Acutis, vicepresidente di Vittoria Assicurazioni.

«Guardare, a un secolo e mezzo di distanza, all'esperienza risorgimentale – spiega Benito Benedini, presidente nazionale della Federazione dei Cavalieri del Lavoro – è dunque un passaggio necessario, non solo e non tanto per celebrare il passato quanto, soprattutto, per superare un presente in cui il senso di unità sembra, da troppi punti di vista, affievolito, sfumato, sempre più incerto e sempre meno condiviso. Non potremo mai essere davvero cittadini europei se non saremo, prima, cittadini italiani». E ancora, conclude: «Come oggi, la metà dell'Ottocento fu un periodo di forte migrazione. Parliamo di un processo che non fu indolore, né per chi accolse né per chi venne accolto. Un percorso irto di contraddizioni e asprezze che sarebbe retorico negare. Ma, soprattutto, un cammino comune che riuscì, nonostante gli ostacoli, a far prevalere la forza della tolleranza e del buon senso e, attraverso di essi, seppe trovare una sintesi e generare un rapporto fecondo».

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