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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2011 alle ore 08:15.

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Essere in Cina è il loro valore aggiunto. Duemila aziende, centomila dipendenti, 8 miliardi di euro di fatturato. Tanto vale la presenza consolidata del made in Italy secondo la banca dati Reprint del Politecnico di Milano in un paese-continente che non smette di crescere.
Per queste realtà il mercato locale è ormai diventato quello di riferimento: a loro il vento cinese ha portato ottimismo, nuove opportunità e voglia di investire.
«In Cina abbiamo esportato prodotti per 6,6 miliardi nel 2009. Non poco. Il disavanzo commerciale c'è ed è forte, ma gli investimenti sono ormai stabili – è la tesi di Marco Mutinelli, docente di economia a Brescia –. Le rilevazioni della Bank of China parlano di 352 milioni di dollari nel 2009, 135 milioni di euro per la Banca d'Italia, la metà, stime che variano perché è difficile interpretare i flussi finanziari diretti in Cina. Hong Kong ne capta ancora la metà, ma profondi cambiamenti qualitativi sono in atto, alcuni ancora da codificare».
C'è un gruppo di imprese leader che ha fatto (o ritarato) investimenti del calibro di Mapei, Italcementi, Pirelli, Fiat, Stmicroelectronics, Intesa Sanpaolo, UniCredit, Generali, Marcegaglia, Danieli, Piaggio, Merloni.
E c'è un variegato mondo di imprese di medio calibro che utilizza la Cina in sé e per sé, con un occhio al mercato interno, destinato a crescere grazie alle misure del governo di Pechino. «Il prossimo piano quinquennale favorirà le tecnologie ambientali, le infrastrutture, la sanità. E l'alimentare, area in cui il made in Italy potrà dare il meglio di sé, come dimostrano aziende già sul territorio», commenta Thomas Rosenthal, a capo del Centro studi della Fondazione Italia-Cina.
Rispetto agli ultimi tre anni, il quadro ha contorni più definiti. Qualche esempio. Candy group di Aldo Fumagalli ha appena riconfermato la presenza nel Guangdong con un investimento di 30 milioni nella produzione di lavatrici per il mercato cinese. La PiQuadro di Marco Palmieri, borse di design, quotata da poco, ha superato la tempesta del 2008 varando nuovi progetti: «Oltre alla rete di vendita, abbiamo realizzato un nuovo stabilimento con produzione automatizzata a Zhongshan e, per contrastare il problema del turn over dei dipendenti, aumentato volontariamente del 40% gli stipendi – dice Marco Palmieri –. Ma ne valeva la pena, perché in Cina abbiamo messo a punto un modello produttivo che ha retto all'urto della crisi e al quale restiamo fedeli. Semmai, la volontà è quella di ottimizzarlo».
Mario Vergani è ad della Kopron (macchine per la logistica): «Facciamo cose che in Cina non sanno fare ancora bene. Stiamo costruendo uno stabilimento produttivo per macchine destinate alla logistica. Vogliamo almeno quintuplicare i volumi, il mercato c'è. Siamo presenti in tutto il mondo, la nostra non è una forma di delocalizzazione, ma una presenza nei mercati dove è giusto essere presenti».
«La nostra Eldor si è stabilita in un'area, a Dalian, in fortissima crescita – dice l'ad Andrea Durante –. Un polo dell'automotive perfetto per un'azienda di componentistica come la nostra. Direi che il nuovo sito va nella direzione di essere lì dove in questo momento bisogna essere». Katia Gruppioni (Sira Group, elementi radianti, attivo anche in Russia e Romania) offre un altro esempio di pervicacia: «Da Jixian, stabilimento Cina 1, siamo passati a Jinghai, Cina 2, sempre nella municipalità di Tianjin. Ma la Cina è grande, stiamo guardando altrove, senza però sottrarre risorse all'Italia».
La Faam a Yixing, nello Jiangsu (batterie industriali) ha appena aumentato il capitale: «Il piombo è tra i cinque materiali sotto screening da parte delle autorità, offrire lavorazioni controllate è un vantaggio competitivo enorme – dice Ermanno Vitali, marketing manager –. Nei giorni scorsi il governo ha attivato controlli a tappeto costringendo molte aziende inquinanti a chiudere. Dobbiamo solo decidere se ampliare lo stabilimento oppure aprirne un altro». Proprio sulla riconversione delle materie prime, incluso il piombo, sono puntati i fari di Merloni progetti. Dice Carmine Biello, l'ad: «Vicino Chongquing stiamo supportando la costruzione di un sito per il riciclo di piombo. La fabbrica cinese destinata allo scopo è stata chiusa dal governo perché inquinava moltissimo. Opportunità di questo tipo se ne possono presentare moltissime per noi».
IGuzzini, illuminazione di design, pianifica «di aumentare la presenza vicino Shanghai, dopo l'Expo per noi la Cina è diventata una piazza importantissima», dice Massimiliano Guzzini. Ma è il Guangdong la piazza per le aziende del design e del lusso. Ampliano o pianificano la presenza produttiva anche griffe del calibro di Prada e Bulgari, i grandi del design studiano punti produttivi per migliorare la qualità di ciò che si realizza in Cina, anticipando i tempi della logistica.
La Cina, stando alle 1.600 aziende monitorate da Assolombarda, a parità di condizioni, svetta sui paesi Bric. Attrazione spiegabile anche con le parole di Paolo Crudele, addetto commerciale (ora numero due) dell'ambasciata a Pechino: «La tenuta dei nostri è un dato di fatto. Entrare, ora, non è così semplice. Però, se guardiamo alla calma piatta europea, tutto è possibile».
rita.fatiguso@ilsole24ore.com
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