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Questo articolo è stato pubblicato il 21 aprile 2011 alle ore 08:32.

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Nicla Pizzi, avvocato e consulente di imprese, non ha dubbi: «Dopo la crisi assistiamo a una precarizzazione delle microimprese di Lumezzane. Magari a fine anno, quando tirano le somme si accorgono che in fondo non è andata così male, che le giornate lavorate sono più di quelle previste, ma artigiani e subfornitori non sono abituati a vivere alla giornata, con gli ordini che arrivano sporadicamente o tutti insieme. Questa era gente abituata a produrre con un portafoglio ordini di mesi. Un vero e proprio trauma, che mette in forse la stessa sopravvivenza dei piccoli subfornitori».

Nicla Pizzi, figlia di un costruttore di macchine utensili («ma in fabbrica non sono riuscita a trovare un ruolo»), è stata per cinque anni assessore alle attività produttive: «Abbiamo fatto indagini e analisi con l'università per trovare nuovi sbocchi produttivi in comparti meno saturi e con maggiore valore aggiunto. Ma, sempre, si arrivava alla medesima conclusione: per diversificare e, soprattutto, arrivare a nuovi mercati e a servizi innovativi ai clienti la micro dimensione è un vero e proprio freno. Magari lavorare nel laboratorio di famiglia si ottiene una maggiore flessibilità produttiva, tutti tirano la cinghia in caso di difficoltà, nessuno guarda l'orario quando arrivano gli ordini.

Ma il passo in più richiede forme di aggregazione che non sono mai riuscite a decollare, salvo rare eccezioni. È un gap culturale fortissimo, ognuno vuole restare padrone a casa sua, ma aggregazione non necessariamente vuol dire fusione: si può pensare, per esempio, a società commerciali per i mercati esteri, forme per la tutela di brevetti, progettazioni comuni». Eppure, assicura l'avvocato, c'è sempre stata forte attenzione al tema, «ma è mancato il gruppo che fa il primo passo: sono sicura che quando si vedranno i risultati, per gemmazione, altri seguiranno».

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