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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2011 alle ore 09:55.

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Sergio Dompé, FarmindustriaSergio Dompé, Farmindustria

«Il distretto di Pomezia, fin da quando si decise di incentivare gli investimenti nel Centro e nel Sud d'Italia, ha avuto un grandissimo sviluppo. In questi anni, ha costituito uno dei maggiori punti di forza del Lazio, tanto è vero che il 70% dell'export hi-tech della regione è nel settore della farmaceutica». Per Sergio Dompé, il caso Pomezia è un successo. Il Sole 24 Ore ha avuto occasione di sentire il presidente di Farmindustria sullo stato di salute del distretto, sul biotech e sull'industria del farmaco in generale.

Pomezia funziona, quindi...
Certamente: l'esempio del distretto laziale è assolutamente valido. Anche se ci sono stati dei provvedimenti dello Stato e della Regione Lazio che hanno portato i livelli di rimborsi a Pomezia al di sotto di quelli di produzione, e questo occorre tenerlo presente.

Ma come è cambiata l'industria del farmaco negli ultimi tempi? L'ingresso delle società biotech ha modificato in qualche modo il settore? E in che modo?
La rivoluzione più grande che il biotech ha portato all'intero settore dell'industria del farmaco riguarda l'approccio organizzativo. La collaborazione tra soggetti diversi – imprese fra loro, università, centri di ricerca pubblici, spin-off universitari – è una necessità in questo campo, che ha un time to market elevatissimo.
Quindi come sta il settore delle biotecnologie a fine medico? Si può dire che sostanzialmente sia in salute?
Teniamo presente che in questi anni nel settore Red Biotech (quello delle aziende del settore biotecnologico che si occupano di cura della salute, ndr) le società nel nostro Paese sono diventate circa 200: un numero sicuramente significativo. E i candidati farmaci sono 250, di cui 150 in fase di sperimentazione clinica. Possiamo quindi sicuramente dire che il settore è tonico.
In generale, la produzione italiana nel farmaceutico ottiene ottimi risultati all'estero: nei primi anni Novanta le esportazioni erano il 13%, mentre nel 2011 prevediamo invece che si toccherà il 56-57%.

Perciò non avete sofferto la crisi, o quantomeno molto meno che in altri campi industriali. Ma quali sono le particolarità di un settore così atipico?
C'è il discorso dei vincoli regolatori e dei tempi di commercializzazione: dalla scoperta di un principio attivo alla sua effettiva uscita sul mercato passano in media 13 anni. E questo comporta che l'"ingegneria" delle società del nostro settore deve essere estremamente complessa e ben calibrata. Teniamo presente inoltre che su tre prodotti che passano tutte le fasi di test e che finalmente giungono sul mercato, uno non riesce a far recuperare alla società che lo commercializza i soldi spesi durante la fase di ricerca. La conseguenza è che per fare un piano di sviluppo per una azienda del nostro settore, serve gente veramente preparata.

Quindi, a volte, le società farmaceutiche e del biotech "red" lavorano senza riuscire ad avere un tornaconto economico certo...
Infatti. E l'altissima percentuale di progetti che non portano "cash" alle società è il motivo per cui i margini nel settore farmaceutico sono particolarmente alti. Nel nostro campo, infatti, oltre agli utili, bisogna guardare con molta attenzione anche alle spese. Inoltre, questo spiega perché un'altissima percentuale delle industrie biotech sia in passivo per diversi anni: è del tutto fisiologico.

Ci vuole molta costanza per ottenere degli obiettivi con dei vincoli e un time to market così elevato...
Confermo. Ed è anche per questo che più del 54% dei ricercatori nell'industria del farmaco sono in realtà delle ricercatrici: le donne, oltre ad essere spesso più preparate, si rivelano anche più tenaci nel superare le difficoltà rispetto ai colleghi maschi. Facendo un paragone con il pugilato: nella ricerca bisogna anche essere ottimi incassatori.

franco.sarcina@ilsole24ore.com

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