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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 08:14.

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Ho scritto spesso, andando per microcosmi da Torino a Trieste, che il vero simbolo identitario del lombardo veneto, più che il sole delle alpi con cui ad Adro (Brescia) si è decorata la scuola del paese, dovrebbe essere un bel capannone. Aforisma scherzoso ma non troppo. Rimanda a quel mezzo milione di attività manifatturiere e commerciali che fanno parte del paesaggio quotidiano nel nostro andare per paesi che formano la megalopoli padana fatta di capannoni, con a fianco villette a schiera, con i nanetti in giardino e la Bmw in garage. C'è poco da scherzare. Sono, i capannoni i centri commerciali le villette e le macchine tedesche, simboli forti del nostro modello di sviluppo e di benessere, con cui ci siamo mangiati un bel po' di territorio. Per arrivare al tavolo del G8 e ad essere secondi solo alla Germania nella classifica dei paesi manifatturieri dell'Europa che viene avanti.
Chi l'avrebbe mai detto quando, dai sottoscala di cascine e case di paesi agricoli, imprenditori improbabili e alle prime armi, animati dal gene egoistico dell'impresa che cresceva nel proliferare del capitalismo di territorio, andavano dal sindaco chiedendo a gran voce l'area artigianale ove costruire l'agognato capannone perché l'impresa cresceva e rendeva. Non contenti, anche quando dalle fabbrichette siamo passati allo sviluppo commerciale, abbiamo spesso realizzato strade piene di outlet, ipermercati e negozi anche loro segnati dal simbolo del capitalismo molecolare: il capannone. Eletto a bene strumentale per l'impresa detassabile dalla legge Tremonti bis del 2001. Così che, anche se il ciclo espansivo del capitalismo di territorio era finito, il capannone ha proseguito la sua corsa sino alla crisi attuale. Dove si ragiona per uscirne di green economy, di soft economy, di sviluppo sostenibile, di innovazione tecnologica, di creatività, di economia dell'esperienza, di sobrietà, di reti lunghe di commercializzazione, di saperi formali contaminati con i saperi contestuali dell'artigiania, di estetica della merce, di bellezza del dove la si produce e di paesaggio… Parole chiave di un eterotopia della transizione capitalistica che induce un'altra mutazione antropologica della cultura di impresa. Si passa da una logica di quantità, il capannone proliferante con al lavoro tutta la famiglia, ad una logica di qualità che incorpora innovazione, design e creatività. Non solo dentro le mura dell'impresa, ma anche fuori dalle mura nel territorio e nel fare paesaggio. È proprio finita l'era del geometra e delle aree industriali a buon mercato. E come sempre c'è già chi è pronto a suonare il de profundis non solo del capannone, ma del nostro capitalismo di territorio. Io credo che ce la faremo ad attraversare anche questa discontinuità. A condizione che proliferi e si diffonda un'antropologia e una cultura del progetto affidata a una nuova generazione sociale e imprenditoriale che intreccia saperi, saper fare e nuova cultura istituzionale. L'ho vista all'opera in un laboratorio realizzato a Pieve di Soligo (Treviso) dalla fondazione Francesco Fabbri nell'ambito del Festival Città-Impresa del Nord Est. Qui dieci sindaci, da Vittorio Veneto a Villanova di Camposanpiero, e la Confindustria di Treviso hanno scelto dodici capannoni dismessi, "capannone senza padrone" si chiama il progetto pilota, e, con dodici università, ovviamente quelle del triveneto con Catania, Alghero e Reggio Calabria, e con il contributo del maestro vicentino Aldo Cibic, ne hanno riprogettato l'uso e il reinserimento nel paesaggio della città infinita veneta. Ho visto riprogettare porcilaie, capannoni avicoli, lanifici storici, mobilifici ed ex caserme dismesse… Ho visto duecento giovani con i loro professori riprogettare citando grandi vecchi del design come Andrea Branzi: «In un mondo che non ha più un esterno è possibile immaginare le grandi trasformazioni come il risultato di microinterventi». O archistar come Jean Nouvel: «Far passare elementi, giudicati molto negativi o molto positivi, sia attraverso il loro rovesciamento sia attraverso la loro esagerazione significa provocare un evoluzione inversa a quella del disincanto che ha conosciuto un luogo». Musica e poesia per questa fascia di provincia italiana che solo in veneto conta sei milioni di persone, dove si concentrano ormai il meglio e il peggio di ogni grande città. Da un lato capannoni capannoni capannoni, dall'altro centri storici non più minori, paesaggi di grande valore, pezzi di natura intatta, pressione sociale contenuta, rete creativa e visibilità economica sui mercati internazionali. Giovani che sognano che «se la strada pedemontana veneta aprisse nel 2019 diverrebbe il primo nuovo vettore su cui far viaggiare le idee in modo Lo-Fi (low definition, a bassa definizione), un'autostrada delle idee nel punto di connessione tra pianura e montagna, un corridoio privilegiato che lambisce nel suo percorso terminale i territori del prosecco, candidati a divenire patrimoni dell'Unesco».
A Pieve di Soligo ho visto formarsi una nuova alleanza fra i sindaci, a cui è rimasto il cerino in mano della qualità della vita e dello sviluppo, gli innovatori, che vogliono accettare la sfida della discontinuità, le università e i giovani architetti. Tutti convinti che così facendo il Nord Est, con Venezia città simbolo della manutenzione continuata, può candidarsi a capitale della cultura per il 2019. C'è intelligenza e sapere adeguato su questo territorio dei Rullani, dei Micelli, dei Giacomin, dei Luca Romano e di Filiberto Zovico che con la rivista Nord Est Europa animano il festival e l'idea di candidatura. I sindaci, come abbiamo visto, non aspettano altro. Molto dipenderà dalle imprese leader che ci sono e trainano le filiere come la Diesel di Rosso, la Dainese, Boscaini col suo amarone, Bisol col suo prosecco e il Consorzio del Prosciutto San Daniele. Imprese che realizzano un rapporto nuovo col territorio. Tutti assieme chiedono una politica che vada oltre i localismi verso l'Europa. Solo così i giovani progettisti del riuso dei capannoni che sono nati in quello che il drammaturgo Paolini definisce secondo veneto, quello della crescita economica che ha cementificato il primo Veneto, potranno sperare in un terzo Nord Est possibile.

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