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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2011 alle ore 13:51.
Amo spesso citare il compianto economista Charles Kindleberger, mio vecchio insegnante al Massachusetts Institute of Technology, che diceva sempre che chi passa troppo tempo a pensare all'economia monetaria internazionale finisce per diventare matto. Forse però bisogna allargare il concetto, perché pare che basti soffermarsi a lungo sulle politiche monetarie in generale per perdere il senno.
Chi si aspettava più spinta all'economia dal programma di espansione quantitativa della Federal Reserve è rimasto deluso, ma la reazione appropriata è «Bah». Non è un gran problema. E lo stesso vale per il deprezzamento del dollaro, sceso dal picco raggiunto durante la crisi più o meno ai livelli in cui era all'inizio del 2008 (e questo ha scatenato l'isteria di certe persone).
Tutto il tono della discussione ricorda le discussioni sul gold standard, quando quasi tutti pensavano che contestare il ruolo sacro di un metallo composto esattamente da 79 protoni avrebbe significato la fine della civiltà. Ma sono passati ottant'anni da quando la Gran Bretagna mise fine alla convertibilità in oro della propria valuta, e non mi sembra che William e Kate recentemente siano convolati a nozze in mezzo a una landa desolata. Sono quasi quarant'anni che i tassi di cambio fluttuano liberamente, e fluttuavano liberamente anche sotto il regno di Santo Reagan e sotto quello del Caro Leader (e no, l'11 settembre non c'entra nulla con il calo del dollaro durante la presidenza di George W. Bush: come dicevo prima, c'è qualcosa, nell'argomento «moneta» che fa perdere la testa alla gente).
In ogni caso, moneta e politica monetaria sono sostanzialmente questioni tecniche, per quanto importanti. Non sono in palio le sorti della società occidentale, non sono in gioco profonde questioni morali se le autorità lasciano che il potere d'acquisto del mezzo di scambio si deprezzi lievemente. È meglio che ci diamo una calmata, tutti quanti.
A proposito di politica monetaria internazionale…
Non ho fatto in tempo a scrivere che la follia associata ai dibattiti sulle politiche monetarie a livello internazionale ormai si è trasferita al dibattito sulla politica monetaria in generale che sono incappato in un editoriale di Steve Pearlstein sull'economia globale per il Washington Post: in parte mi trovo d'accordo con quello che scrive Pearlstein, ma il difetto dell'articolo è che si concentra sul ruolo internazionale del dollaro, come se fosse il problema fondamentale.
L'articolo, pubblicato il 22 aprile, sostiene che la storia del dollaro può finire in due modi. «Nello scenario ottimistico, le forze politiche a Washington raggiungono un accordo credibile sui conti pubblici, la Fed riesce ad assorbire tutta la liquidità in eccesso che ha creato e il declino a lungo termine del biglietto verde prosegue in modo sufficientemente graduale da consentire al mondo di barcamenarsi fino a che non emergono un nuovo ordine e una nuova architettura», scrive Pearlstein. «Nello scenario più cupo, ventilato la settimana scorsa dalla più importante agenzia di rating, le forze politiche non raggiungono un accordo sul bilancio scatenando una crisi del credito che genera una crisi del dollaro che innesca un'altra crisi finanziaria globale, al cui confronto l'ultima sembrerà un gioco da bambini».
Pearlstein non è pazzo come i fanatici dell'oro, ma sembra avere in comune con loro la tendenza a esagerare l'importanza di avere una valuta globale.
Che ci guadagnano gli Stati Uniti dallo status particolare del dollaro? Un guadagno evidente è che gli stranieri possiedono un'enorme quantità di biglietti verdi con sopra l'immagine di presidenti morti, per un valore stimabile in 500 miliardi di dollari. Di fatto è un prestito a interesse zero: in tempi normali, quando i tassi di interesse a breve sono sul 4-5 per cento, vale qualcosa come 25 miliardi di dollari l'anno. Un bel po' di soldi, ma poca roba di fronte a un'economia da 15mila miliardi di dollari.
Poi vengono le parti più discutibili. Si dice spesso che è solo grazie allo status speciale di cui gode il dollaro che gli Stati Uniti possono permettersi di tenere in piedi grandi disavanzi commerciali. Ma non è vero: anche altri Paesi le cui valute non svolgono nessun ruolo particolare possono fare, e fanno, la stessa cosa (come dimostra il grafico di questa pagina).
È possibile però che l'acquisto di buoni del Tesoro americani da parte di Banche centrali straniere mantenga il dollaro più forte e i tassi di interesse più bassi di come sarebbero altrimenti.
Si può concepire ad esempio l'accumulo di riserve da parte delle autorità cinesi come un intervento sterilizzato sul dollaro (un intervento che non influenza la massa monetaria). In generale si tende a pensare che gli interventi sterilizzati producano effetti modesti, perché solitamente sono compensati da movimenti di capitali privati nell'altro senso. Ma forse c'è qualcosa in più.
Difficilmente però si può pensare che i benefici che derivano al dollaro dal suo status di valuta di riserva possano rappresentare più di uno zero virgola qualcosa del prodotto interno lordo. Non è una questione di poco conto, ma non è neanche il problema prioritario dell'economia.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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