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Questo articolo è stato pubblicato il 14 maggio 2011 alle ore 08:58.
«Inizialmente mia moglie era perplessa, non capiva: perché mettete tanti paletti nel far entrare i nostri figli in azienda? Poi quando le ho spiegato che serviva a tutelare il futuro dell'impresa, e quindi anche dei nostri figli, si è convinta». Scelta controcorrente, quella effettuata da Andrea Funari che con i fratelli, seconda generazione, gestisce il gruppo Funari, una serie di concessionarie ufficiali di cinque marchi, da Volkswagen a Lamborghini, saloni per singoli brand sparsi tra Caserta e Napoli «con gestione centralizzata per tutto quello che sta nel retrobottega, dall'officina ai servizi finanziari».
I tre fratelli Funari, che hanno preso il gruppo in mano dopo che il padre ha lasciato l'azienda a 78 anni («è morto lavorando»), hanno un patto di famiglia molto «dettagliato, cercando di prevedere tutte le possibilità». I figli, attualmente sei, potranno entrare in azienda solo dopo una laurea, un'esperienza di un anno all'estero, aver dimostrato di conoscere fluentemente una lingua straniera. «Un tutor, un professionista esterno di nostra fiducia, seguirà il loro percorso formativo e individuerà anche inclinazioni e capacità professionali». Il patto di famiglia prevede anche che a 65 anni gli attuali gestori del gruppo, 84 milioni di fatturato, 120 addetti, si ritirino dalla gestione, restando solo come azionisti: «Stiamo inserendo manager all'interno del gruppo per uscire dall'ambito di azienda familiare, un concetto che ci va stretto». In altre parole, sintetizza l'ad del gruppo, «la famiglia è e resta il luogo della solidarietà, i nostri figli la potranno ereditare. Ma l'azienda è e deve restare il luogo del merito. E quindi ogni posto deve andare ai migliori».
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