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Questo articolo è stato pubblicato il 16 maggio 2011 alle ore 06:38.

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Troppo passive nella crisi. E non solo. Credono nel mantenimento della proprietà e della gestione della propria azienda all'interno della famiglia; non si aprono al capitale esterno; non hanno fatto esperienze di aggregazioni con altre aziende; non comprano né acquistano su internet. Sono le piccole e medie imprese italiane che si mettono a nudo nella struttura, nelle strategie e nelle convinzioni attraverso lo studio "Costruire il futuro. Pmi protagoniste: sfide e strategie" elaborato dal Centro studi di Confindustria. Un lavoro che ha scavato nel vero tessuto economico italiano - quello formato da imprese con meno di 250 addetti - attraverso questionari che hanno raccolto informazioni su 508 attività del Paese.
Dalle molteplici fotografie emergono luci e ombre. Si scopre così che al fianco di una ancora forte spinta all'imprenditorialità che caratterizza l'Italia si evidenzia una forte resistenza al ricorso a risorse extra familiari. Di fronte al problema del passaggio generazionale, infatti, il 55% del campione ha ritenuto il mantenimento di proprietà e gestione dell'azienda all'interno della famiglia la migliore strategia da adottare. Circa il 24%, invece, ricorre a manager pur mantenendo la proprietà e solo il 10% ricorre a manager e apre il capitale a soggetti esterni.
«Il dato non sorprende – spiega Gianluca Spina, presidente del Mip Politecnico di Milano – perché la difesa del modello familiare decresce con l'aumento dimensionale dell'impresa. Nel nostro Paese il numero di aziende molto piccole è altissimo e la resistenza al capitale esterno è conseguenza diretta della dimensione».
Nell'identificare il principale fattore di successo della propria impresa, il campione risponde con una quota significativa (40%) segnalando la qualità del prodotto. Segue con una percentuale ben inferiore (23,8) il prezzo e il contenuto tecnologico particolarmente avanzato del prodotto (12,7%). Proprio sull'innovazione di prodotto, infatti, si sono concentrati gli sforzi della maggior parte delle imprese. Ben il 74,4% del campione ha infatti introdotto negli ultimi cinque anni delle innovazioni o dei cambiamenti rilevanti su prodotti esistenti o ne ha inventati di nuovi. Alta anche la percentuale di imprese che hanno innovato il processo di produzione, l'organizzazione del lavoro e la commercializzazione. Uno sforzo che potrebbe essere maggiore se, per il 49,3% degli intervistati, non vi fosse una congiuntura economica sfavorevole, se le banche fossero più disponibili a finanziare i progetti (22,9%), se il quadro normativo amministrativo fosse migliore (11,6%).
Se il prodotto resta di qualità e concentra investimenti delle imprese, la rete resta invece ancora sottoutilizzata. Solo il 14,3% infatti vende attraverso internet. Anche gli acquisti sono un'eccezione: solo il 10,2% del campione compra online materie prime e semilavorati e l'8,2% prodotti finiti. Più alta la percentuale di servizi bancari, il 31,2% e di servizi in generale 18,2%.
Sul fronte dell'aggregazione non va meglio. Il 56% del campione, infatti, non ha mai fatto esperienze di alleanze o joint venture con altre imprese. «Una realtà che frena la crescita – spiega Spina – perché essere piccoli non consente vere politiche di internazionalizzazione. Se l'impresa si limita a vendere all'estero i propri prodotti non sarà in grado di sfruttare le opportunità del mercato».
Difficile crescere, però, senza aprire il capitale all'esterno. Fenomeno che neanche la crisi economica ha favorito perché il 70% delle imprese interpellate ha dichiarato di non averlo fatto. «In Italia – conclude Spina – c'è uno spazio importante per operazioni di private equity sulle piccole imprese. Penso a operazioni industriali – e non finanziarie – di almeno cinque anni, con bassa leva finanziaria in partnership con la proprietà o con i manager dell'azienda. L'esperienza ha infatti dimostrato che sono queste le operazioni vincenti. L'ingresso di capitali esterni, infatti, può avere successo se si accompagna alla valorizzazione del patrimonio di informazioni e di conoscenze di chi ha guidato l'impresa nel tempo». Solo il 29,8% del campione, però, ha apportato nuovi capitali all'impresa perché - come recita l'analisi dell'ufficio studi di Confindustria - «la maggior parte dei piccoli imprenditori ha affrontato il periodo recente con un atteggiamento passivo».
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Dimensioni
PICCOLO NON È PIÙ BELLO
È la percentuale di Pmi che ritiene la crescita dimensionale un elemento per controllare meglio i mercati con reti commerciali. Tra gli altri vantaggi: maggiore innovazione (65,8%), maggior presidio sui mercati esteri (62%) e aumento della produttività (54%)
Poche transazioni in rete ad eccezione dei servizi bancari
Le imprese dichiarano di utilizzare poco internet per acquisti e vendite. Il dato più significativo, meno di un terzo delle imprese, è registrato dagli acquisti di servizi bancari.
Mercato interno, poca aggregazione e patrimoni familiari
Questa la foto del campione di industrie analizzato dallo studio. Le piccole dimensioni frenano l'internazionalizzazione

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