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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2011 alle ore 09:39.

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Egregio Direttore,
la vicenda del rigassificatore di Brindisi è uno dei classici casi in cui il Sistema-Italia mostra tutti i suoi limiti.
Accade sempre più di frequente che diversi livelli di governo (Stato centrale, Regioni, Province, Comuni), insieme ad altri organi dello Stato (magistratura, sovrintendenze, tribunali amministrativi), forze politiche e sociali, comitati e associazioni, invece di collaborare per ottenere un risultato utile all'interesse pubblico del Paese, si osteggino l'un l'altro bloccando tutto e producendo danni, talvolta, irreversibili.

Per quanto riguarda Brindisi, la Provincia, il Comune e la Regione Puglia hanno sempre fortemente osteggiato il progetto. Infatti non appena il ministero dell'Ambiente ha emanato il decreto di Via favorevole, hanno fatto ricorso al Tar. La Provincia è andata oltre denunciando alla Commissione Ue che l'Italia non si sarebbe conformata alle sue decisioni. Addirittura anche la British Gas ha fatto ricorso al Tar contro il decreto di Via a lei favorevole, perché non intende ottemperare ad alcune prescrizioni in esso contenute.

A ciò va aggiunto che il Comitato tecnico regionale, che ha la responsabilità di valutare la sicurezza dell'impianto, ha chiesto all'azienda un nuovo rapporto trasmesso solo lo scorso 12 aprile. Tutto questo, ovviamente, mentre vari comitati e organizzazioni ambientaliste hanno fatto muro al rigassificatore ed è in corso un processo su eventuali episodi di corruzione.

Di fronte a tutto questo guazzabuglio – non saprei come definirlo altrimenti – siamo pronti a convocare la Conferenza dei Servizi per concludere il procedimento autorizzativo, ma, presumibilmente, le istituzioni locali potrebbero replicare il loro parere negativo. Senza contare che, come da parere dell'Avvocatura di Stato, qualsiasi decisione della Conferenza potrebbe essere vanificata dalla sentenza del Tar.
Brindisi è solo uno dei diversi problemi che ci troviamo ad affrontare. È proprio di questi giorni la notizia che il Consiglio di Stato ha bloccato la riconversione di Porto Tolle, che avrebbe garantito investimenti per 2,5 miliardi di euro e circa 4mila posti di lavoro, mentre è di ieri l'addio di Maersk al porto di Gioia Tauro.

Basta inoltre dare un'occhiata agli ultimi dati del Nimby Forum sulle opere pubbliche ferme a causa di contestazioni per capire quanto sia serio il fenomeno: parliamo di 320 casi rilevati nel solo 2010, l'85% dei quali è addirittura riconducibile a impianti alimentati a fonti rinnovabili, quali centrali a biomasse, impianti eolici, fotovoltaici e centrali idroelettriche. Tra i principali responsabili degli "stop forzati", spiccano i comitati di protesta, ma anche soggetti politici locali, Comuni e altri enti.
La sindrome Nimby non è certo una novità nel nostro Paese. Ma più delle proteste di piazza, che spesso possono essere superate investendo maggiormente su trasparenza e dialogo, ritengo dobbiamo preoccuparci del fatto che lo Stato, invece di favorire infrastrutture e investimenti, ne diventa il principale freno. Il legittimo e doveroso ruolo di garanzia e controllo degli enti preposti al controllo del territorio e dei cittadini rischia spesso di trasformarsi in un incomprensibile diritto di veto.

È evidente che così non si può andare avanti. Ogni qualvolta ci lamentiamo della scarsa crescita del Paese, degli alti indici di corruzione, delle sterminate tempistiche autorizzative, dovremmo sempre chiederci quale impatto economico, produttivo e sociale hanno simili episodi di stallo. Chi ha la responsabilità di guidare lo Sviluppo economico del Paese ha il compito di dire con chiarezza queste cose, oltre che il dovere di accelerare il cambiamento di una situazione insostenibile.
Serve, innanzitutto, maggiore senso di responsabilità da parte di chi sovrintende agli iter autorizzativi, a tutti i livelli. Ma serve anche una tempistica dei procedimenti chiara e prefissata per legge e che consenta di intervenire con efficacia per superare ingiustificati ritardi.

Semplificazione, sicurezza e condivisione sociale e civile sono la cornice su cui basare lo sviluppo del Paese.
Ma serve anche un salto culturale. Se la nostra urgenza è la crescita, allora dobbiamo iniziare a remare – tutti quanti – nella stessa direzione.

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