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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2011 alle ore 07:57.

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«La visione dello Svimez è, dai tempi dei fondatori Donato Menichella e Pasquale Saraceno, unitaria». L'economista Adriano Giannola, presidente dell'associazione, sostiene la validità di questa "tradizione": «Ancora oggi non è possibile capire il Sud senza il Nord. E nemmeno il Nord senza il Sud».

Perché non ha senso parlare di due Italie?
Perché le dinamiche civili, politiche ed economiche sono troppo intrecciate. La infrastrutturazione come base della politica cavouriana riguarda il Nord come il Sud. Nel dopoguerra l'industrializzazione è ritenuta dalle élite lo strumento migliore per la crescita economica e civile dell'intero Paese.

Perché, con fili così intrecciati, si registra questo divario?
Tutta l'Italia, nel 1861, è un Paese non industriale. Il problema è capire perché vi sia una differenziazione costante degli indicatori economici. E, questo, nonostante il parziale recupero del Mezzogiorno nella prima parte della nostra storia. Recupero ridotto, se non bruciato, dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale.

Il Sud ne esce in condizioni pessime.
Sì, ma l'Italia resta una e una sola. L'acciaio prodotto al Sud è essenziale per l'industria del Nord. Non solo per la meccanica e l'auto. Pure per la chimica di base e la plastica. I giovani del Sud trasferiscono nelle fabbriche del Nord. Anche questa è una interconnessione profonda.

Nel 1951 ci sono la riforma agraria e l'istituzione della Cassa del Mezzogiorno, benefica e non corruttiva nei primi anni. In seguito che cosa si rompe?
A parte l'assalto dei partiti ai grandi gruppi pubblici, nei primi anni Settanta si registrano la fine degli equilibri di Bretton Woods e lo shock petrolifero. L'Italia adotta svalutazioni competitive, che avvantaggiano il tessuto settentrionale di piccole e di medie imprese, e rinuncia a ogni idea di politica industriale, vitale per il Mezzogiorno. È allora che il Sud è lasciato a se stesso.
P.Br.

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