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Questo articolo è stato pubblicato il 11 giugno 2011 alle ore 08:15.

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Se è vero che la contrattazione è un termometro fedele per misurare lo stato di salute di un territorio, allora Bergamo è ufficialmente in via di guarigione: da gennaio a marzo, per la prima volta dal 2008, tra i lavoratori si è parlato più di integrativi che di ammortizzatori sociali. In totale da gennaio a marzo sono stati 4.223 gli addetti coinvolti nella contrattazione di secondo livello (9mila a oggi), contro i 2.008 per i quali è stata attivata la cassa integrazione. Nella provincia che si conferma una delle eccellenze italiane nella contrattazione, quest'anno sono già stati rinnovati 14 integrativi solo tra le aziende medio-grandi, nove si trovano in fase di trattativa e altri 27 dovrebbero essere rinegoziati entro dicembre. In totale fa 50, vale a dire 36 in più rispetto al bilancio del 2010.

«In effetti stiamo ripartendo», osserva il presidente di Confindustria Bergamo, Carlo Mazzoleni, che ieri ha presieduto l'assemblea dell'associazione: «Ma guai a sedersi, nulla è scontato neanche da noi», dice. E l'esortazione non suona scontata, visti i risultati di un'indagine presentata proprio ieri dal sociologo Enrico Finzi, una fotografia sulle aspirazioni dei bergamaschi nella quale trova conferma la centralità dell'industria tra i valori forti del territorio, ma spunta anche una «preoccupante messa in discussione della storica imprenditività bergamasca», come evidenzia lo stesso Finzi. Dati alla mano, se è vero che tra città e provincia il 71,1% della popolazione maggiorenne considera le imprese manifatturiere essenziali per lo sviluppo di tutta la provincia e il 60,6% dei bergamaschi pensa che nel 2020 la situazione sarà migliorata rispetto a oggi, c'è anche un 62,4% che ammette di cercare anzitutto protezioni e un 50% che confessa a denti stretti di essere impegnato a conservare quello che ha più che a costruire qualcosa di nuovo.

Non solo: il 21,3% del (nutrito) campione sondato confessa addirittura di aver perso il gusto del rischio e della sfida, mentre il 17% dice di aver meno voglia di creare una nuova impresa. Si tratta di due segnali di debolezza di cui si era avuto sentore a inizio Duemila ma che ora sembrano emergere chiaramente: «È qui che la crisi sembra aver lasciato un'impronta che rischia di diventare indelebile», sottolinea Finzi. Con un rischio evidente: «Diventare una città museo, dove ci si accontenti di aprire agriturismi e accogliere i turisti stranieri», stigmatizza Andrea Moltrasio, in passato alla guida di Confindustria Bergamo oltre che vice presidente a livello nazionale: «È una prospettiva che mi fa paura, che dobbiamo combattere a livello generazionale per dimostrare ai nostri figli che l'imprenditività è nel dna di questa terra, una dote che oltre a nascere dalla necessità può anche essere stimolata».

Una vera e propria sfida di carattere sociale e culturale. Che vede Confindustria – che proprio ieri nel contesto dell'assemblea ha visto Matteo Zanetti subentrare a Stefano Scaglia nel ruolo di vice presidente con delega all'education - pronta a fare la sua parte, a fianco degli imprenditori: «Da anni ormai – ricorda ancora Mazzoleni – abbiamo imparato a porci non solo come un soggetto capace di erogare servizi, ma anche nella logica del partner, del consulente per la crescita. È un ruolo nel quale crediamo molto, a livello locale ma non solo, che ci sta già offrendo grosse soddisfazioni».

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