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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2011 alle ore 10:44.
L'ultima modifica è del 18 giugno 2011 alle ore 10:44.

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Pressione fiscale, il macigno che frena l'aziendaPressione fiscale, il macigno che frena l'azienda

Osservato dall'interno dell'impresa il fisco è una specie d'ingombrante socio di capitale che si prende una buona fetta dei tuoi utili. Ma è anche qualcosa di simile a un socio di lavoro che ti chiede di occuparti di questioni che potrebbero anche non spettarti. Le aggressioni ai dipendenti di Equitalia, la società controllata dall'Agenzia delle Entrate e dall'Inps che si occupa della riscossione dei tributi, sono la manifestazione violenta di un rapporto fra fisco e impresa che non funziona. Non soltanto per l'avvitamento in cui non si capisce se la pressione fiscale sia strabordante perché in molti evadono o se l'evasione sia alta perché le tasse sono troppo esose. Soprattutto per il peso strutturale che grava sul sistema industriale erodendone la competitività.

Secondo la Banca mondiale la tassazione totale dei profitti, che include anche i contributi sul lavoro e le altre imposte minori, è del 68,6%: venti punti in più rispetto alla Germania, il nostro punto di riferimento per la sua funzione di traino dell'Europa e per la comune vocazione manifatturiera, venticinque punti in più della media Ocse.

Peraltro, il peso del fisco incide in maniera asimmetrica sulle varie dimensioni d'impresa e, come talvolta capita nel nostro Paese, alla fine colpisce nel modo più intenso la parte più vitale ed efficiente del nostro capitalismo produttivo, ossia il Quarto Capitalismo delle medie imprese ultrainternazionalizzate. In questo caso, l'aliquota fiscale media (con Ires e Irap) è del 38,8%, una decina di punti in più rispetto alle grandi imprese italiane, tredici punti in più delle multinazionali europee. L'ufficio studi di Mediobanca, che insieme all'Istituto di Storia economica della Bocconi di Milano ha fissato il canone del Quarto Capitalismo, ha mostrato quanto questo squilibrio e queste asimmetrie influenzino, in negativo, l'efficienza interna del nostro sistema industriale. Restando alle medie imprese, Piazzetta Cuccia ha calcolato che, se la pressione fiscale fosse stata quella (più leggera) delle grandi aziende, il risparmio fiscale cumulato dal 1999 sarebbe stato pari a poco meno di 9 miliardi di euro. Questa somma avrebbe consentito di aumentare del 16% il monte investimenti, oppure di accrescere i mezzi propri del 20%, rendendo cosi il cuore più robusto del nostro capitalismo manifatturiero meno dipendente dal finanziamento bancario.

Questo è soltanto un esempio della maggiore efficienza industriale che potrebbe derivare, alla nostra economia, da un generale alleggerimento fiscale. L'operazione, sotto il profilo concettuale, vale infatti per ogni categoria dimensionale: da quanto resta delle grandi famiglie del 900 all'economia post pubblica, fino al nano-capitalismo. Il problema, però, non è soltanto quanto il fisco prende del tuo lavoro. La questione è anche il tipo d'impegno che richiede. Non tanto come numero di operazioni: secondo la Banca mondiale, i pagamenti da effettuare ogni anno sono 15 in Italia, 16 in Germania, 14 nei Paesi Ocse. Quanto in termini di tempo da dedicare alle telefonate in attesa e alle code negli uffici della burocrazia delle tasse, mal di testa e arrabbiature: in tutto, 285 ore. È come se l'imprenditore dovesse stare 40 giorni all'anno, otto settimane, a occuparsi solo e soltanto di faldoni e fogli, documenti e bolli. Il suo concorrente tedesco, invece, dedica a tutto questo 30 giorni. L'inglese 15.

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