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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2011 alle ore 10:44.
L'ultima modifica è del 18 giugno 2011 alle ore 10:44.

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Pressione fiscale, il macigno che frena l'aziendaPressione fiscale, il macigno che frena l'azienda

Quaranta giorni all'anno, nei calcoli della Banca mondiale, per fare cose che riguardano direttamente il tuo business o per svolgere compiti che lo Stato potrebbe assolvere da solo. Per esempio, la funzione di sostituto d'imposta, che trasforma l'impresa in una mediatrice fra il cittadino contribuente e lo Stato esattore. Ogni mese. E, quindi, nel periodo delle dichiarazioni dei redditi, ogni anno. Personale interno da dedicare a queste incombenze, a favore dello Stato-socio di lavoro in questo caso. Oppure, nel caso delle aziende più piccole, soldi con cui pagare il commercialista che se ne occupi. Lo Stato da pseudo-socio di capitale preleva una fetta strabordante dei tuoi utili, da proto-socio di lavoro ti chiede di occuparti di alcune sue faccende e poi, nella sua veste di legislatore, preferisce non curarsi molto delle evoluzioni del paesaggio industriale in cui ti muovi come imprenditore. Questo terzo volto si esprime bene nell'atteggiamento che ha verso i riflessi fiscali delle nuove tecnologie, una delle componenti essenziali della competitività industriale. Basta prendere i coefficienti di ammortamento dei computer. Un investimento base che, oggi, tende a una rapida deperibilità: la concorrenza sui prezzi e sulle performance è tale che l'obsolescenza dell'informatica ha ormai corsi rapidissimi.

Per questo elemento, in apparenza così minore ma in realtà tanto centrale, è ancora in vigore il decreto ministeriale del 31 dicembre del 1988 che fissa la tabella dei coefficienti di ammortamento: l'elettronica può essere ammortizzata ogni anno al 20% del suo valore. La vita minima di un computer, dunque, viene fissata in cinque anni. Una durata che, oggi, non ha alcuna validità. Dal punto di vista delle imprese, al di là dell'irrazionalità industrial-contabile di un tempo di vita che poteva andare bene vent'anni fa ma non oggi, c'è anche un'altra questione contabil-finanziaria. Se ammortizzi gli investimenti in Ict in cinque anni, abbatti l'utile a fini fiscali in maniera più morbida di quanto non capiterebbe se tu potessi ammortizzarli in tre anni, una durata che sarebbe più coerente con l'evoluzione tecnologica e allo stesso tempo conveniente per l'imprenditore.

In un contesto tanto complesso, i rapporti fra il sistema economico e il fisco sono caratterizzati dal trinomio evasione-elusione-oppressione fiscale. Due economisti italiani (Bruno Chiarini ed Elisabetta Marzano) e uno austriaco (Friedrich Schneider) hanno studiato le serie storiche (dal 1980) del gettito e del Pil (un quinto del quale derivante da attività sommerse) per provare a capire il rapporto fra la pressione fiscale e un fenomeno complesso come l'evasione. Secondo una simulazione che non considera gli effetti di uno shock fiscale sul vincolo di bilancio, sulla riallocazione fra economia nera e attività in toto regolari e sulla psicologia collettiva, se si riduce la pressione fiscale apparente, registrata dalla contabilità nazionale, dal 43% a un più 'umano' 30% il nostro sistema economico potrebbe ridurre l'evasione fiscale del 5,5 per cento. Maneggiando con cautela questo modello econometrico, che è costruito usando dati di lungo periodo, la riduzione del sommerso a un 15% del Pil (una soglia sotto cui è difficile scendere, per la particolare 'fisiologia patologica' delle piccole imprese italiane) consentirebbe di abbattere la pressione fiscale di una decina di punti.

Si potrebbero così prospettare circa sette miliardi di evasione fiscale in meno all'anno. E 150 miliardi di tasse in meno da pagare. La doppia posta in palio nella difficile partita della riconfigurazione del fisco italiano che, se fosse vinta, avrebbe come primo beneficiario la parte sana del nostro sistema industriale.

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