Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2011 alle ore 08:13.

My24

È stato un percorso lungo quello della Fondazione Symbola. Partita dal tema dell'ambiente e dell'Italia borghigiana fatta di piccoli comuni polvere è approdata presto al tessuto delle Pmi e dei distretti produttivi. Unendo l'attenzione per una qualità della vita fatta di riscoperta di valori tradizionali e nuovi gusti élitari, un mix che preannunciava cambiamenti profondi della composizione sociale del paese e la tendenziale riscoperta dell'identità territoriale rispetto alle identità di classe che avevano dominato gli immaginari dei decenni precedenti. Una evoluzione che dalla qualità del made in Italy e delle sue medie imprese era presto approdata al tema della green economy come proposta di una via d'uscita dalla crisi fondata sull'incorporazione del limite ambientale come nuovo terreno dello sviluppo. Sempre avendo come punto di riferimento le tracce lasciate sul territorio dalla comunità operosa dell'impresa. Quest'anno a Montepulciano si è celebrato un ulteriore passaggio che ha molto a che fare con i processi di trasformazione che percorrono l'economia e la composizione sociale di questo paese. Al centro cultura e creatività non più solo come nuovi settori di un'economia postindustriale ma come motori trasversali dell'intero processo produttivo, dall'industria al terziario, in grado di far ricominciare a pensare un futuro al paese. Con una logica a me cara in cui al noto modello delle tre T (Talento, Tolleranza, Tecnologia) dell'inventore della classe creativa, l'americano R. Florida, si aggiunge la quarta T di Territorio. In cui dal contado e dai suoi saperi si arriva alla metropoli e alle piattaforme culturali come driver dell'economia.
I dati mostrano che per importanza non siamo certo ultimi in Europa con due regioni, Lombardia e Lazio tra le prime 10 aree del continente per incidenza degli addetti nelle industria culturali, una economia che nel suo complesso su 30 paesi europei conta ormai 6,5 milioni di occupati. Che crescono a tassi veloci anche nelle nuove potenze asiatiche come la Cina dove la mano pubblica ha coltivato un distretto creativo nella megalopoli Shanghai che oggi accoglie 3mila compagnie di 30 paesi diversi e più di 25mila unità lavorative e il 6% del Pil metropolitano. Che lavorano a produrre iniezioni di soft power nella capacità espansiva cinese tentando il salto dal "made in China" al "Created in China". E d'altronde a livello globale l'esportazione dei prodotti creativi vale il 3,2 % della circolazione totale delle merci a livello mondiale. Numeri cinesi si dirà. Ma che per il "sistema produttivo culturale" iniziano a pesare anche nell'economia del "bel paese": 68 miliardi di euro di valore aggiunto (4,8% del totale) e 1,4 milioni di occupati che nei tre anni di crisi in controtendenza sono pure cresciuti. Siamo i primi esportatori tra i paesi ad economia matura, secondi solo alla Cina. Una crescita trainata soprattutto dal segmento del design e delle produzioni di stile più legate al made in Italy (+8,2% di valore aggiunto e +3,1% di occupazione) mentre ha visto una contrazione dell'artigianato artistico più tradizionale.
Dati importanti perché suggeriscono come il modello italiano di terziarizzazione continui a trovare uno dei suoi motori nella connessione con l'industria. E che soprattutto permette di far emergere una geografia della transizione all'economia della cultura che ripropone, sebbene in termini nuovi, l'importanza dei fattori territoriali. Mentre nel Nord Ovest e nel Nord Est pesano e crescono soprattutto le industrie creative legate al design e al servizio all'impresa, nel Centro pesa la potenza della concentrazione nella capitale delle industrie culturali in senso stretto (musica, cinema, editoria, ecc.). L'economia della cultura, insomma, non si sviluppa come un flusso globale indifferenziato, ma tende ad adattarsi e focalizzarsi nei territori in base alle specializzazioni e ai vantaggi distintivi; venendo avanti anche in contesti non metropolitani come mostrano il caso delle Marche e del Veneto, le uniche regioni italiane in cui l'incidenza del valore aggiunto dell'industria creativa è sopra il 6%. Un modello di trasformazione economica cresciuto con dinamiche diverse non solo tra metropoli e contado ma che nei primi anni Duemila ha conosciuto almeno tre "modelli" metropolitani: Torino in cui il grande sviluppo delle professioni creative è stato trainato dall'azione pubblica e dai grandi eventi, Milano in cui le industrie della comunicazione e il design si sono legati funzionalmente alle commesse dell'industria manifatturiera insediata nelle piattaforme produttive circostanti e infine Roma caratterizzata da un mix di policies culturali pubbliche, turismo e il ruolo della grande industria della comunicazione.
Quelli della ricerca Symbola-Unioncamere mi paiono dati importanti, che indicano una possibile direzione in momenti delicati come quello dell'approvazione di una finanziaria che si preannuncia "greca" quanto a tagli e annunci di "austerità". Il paese è in mezzo a un guado con una transizione in cui gli unici settori che crescono sono quelli della cultura appunto e dell'impresa sociale e dei servizi alla persona (sui quali si apre un enorme problema di produttività). Con il grande problema della disoccupazione giovanile. Buona norma sarebbe incorporare il tema dei sacrifici in uno sforzo che non metta in discussione quei pochi canali che nel terziario continuano a dare una valvola di sfogo, che sostenga gli start-up innovativi oppure favorisca un inserimento dei giovani nel tessuto delle Pmi "creative" e che soprattutto non si preannunci vessatoria verso quel bacino di Partite Iva proliferanti del terziario che costituiscono l'ossatura proprio di quella economia della cultura che sembra espandersi. A quando, dunque, delle politiche mirate verso i bacini dell'occupazione giovanile che disegni un'Italia che non sia solo un paese per vecchi?

Shopping24

Dai nostri archivi