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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2011 alle ore 07:36.

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Le strade influenzano i mercati. Le ferrovie contano nella storia di un paese. La Via del Sale e la Via Francigena hanno costruito il Medioevo dei mercanti. Nell'Europa attuale l'alta velocità non costituisce soltanto una grande opera, densa di incognite infrastrutturali e finanziarie e capace di accendere conflitti.

È prima di tutto una arteria che trasporterà le merci realizzate nelle fabbriche di ciascun paese. Per andare dove? E con quali effetti sulle linee di sviluppo di un sistema produttivo? Nel caso dell'Italia il Corridoio 5, che da Lisbona in Portogallo arriva fino a Kiev in Ucraina (trampolino per la Russia), valorizza due prospettive di crescita: la partnership storica con la Francia, strategica fino agli anni Settanta, e lo sbocco sui mercati dell'Est Europa.

Il Corridoio 24, Rotterdam-Genova, invece, rafforza l'integrazione fra l'Italia e la Germania. Due infrastrutture per due opzioni. Nella consapevolezza che, nel migliore dei mondi possibili, un'economia export oriented, aperta e integrata avrebbe bisogno di entrambe.

Secondo l'Istat, nel 2010 abbiamo esportato in Francia merci per 39 miliardi di euro. Nello stesso anno, l'export verso la Germania è stato di 44 miliardi di euro. Oggi la Germania vale il 13% delle esportazioni, un punto e mezzo in più della Francia che si ferma all'11,6 per cento. Le economie locali del Nord sono molto legate alla Germania: un terzo dei manufatti italiani che finiscono in Germania è lombardo, il 15% è veneto, il 13% emiliano-romagnolo, il 12% piemontese. Altrettanto intenso è il legame con la Francia: il 28% delle esportazioni italiane è lombardo, il 12% è veneto, il 12% è emiliano romagnolo, il 15% è piemontese. La Germania, dunque, sopravanza di poco la Francia. Le differenze sono maggiori nella direzione opposta: importiamo beni dalla Germania per circa 50 miliardi di euro, mentre quelli dalla Francia si limitano a poco più di 26 miliardi.

Il rapporto fra Germania e Italia appare assumere tratti quasi simbiotici se si analizza l'intreccio industriale. Secondo la banca dati sull'internazionalizzazione Reprint del Politecnico di Milano, che considera tutti i settori con l'esclusione della finanza, le imprese tedesche che hanno partecipazioni rilevanti in Italia sono 817, quelle francesi 493. Le italiane con partecipazioni in Germania sono 1.213, in Francia 1.358.
La questione non è soltanto statistica. Il nodo è la ragione strategica dell'intreccio italo-tedesco. In questa prima fase di economia internazionale post-finanziaria, il manifatturiero rappresenta il cuore produttivo dell'economia europea. E, dopo il motore tedesco, il secondo tessuto economico con questa vocazione è quello italiano.

Di fatto il nostro sistema produttivo è diventato in questi ultimi quindici anni una sorta di indotto de-luxe della grande industria automobilistica, meccanica e chimica della Germania: buona qualità dei prodotti, basso costo del lavoro e elasticità garantita dalla minore dimensione media delle aziende. Componenti, ma anche beni strumentali. Tutti elementi che inchiavardano alla Germania la dorsale meccanica padana, che dal Piemonte attraversa la Lombardia, l'Emilia Romagna e il Veneto per scendere fino alle Marche. Un sistema che ha bisogno di collegamenti. Come il Corridoio 24.

C'è, poi, un altro fattore da considerare. Sul lungo periodo l'economia tenderà ad assumere sempre più la dimensione dell'immaterialità. Da questo punto di vista, la Germania appare più strategica della Francia: il nostro export di servizi, nel 2009, ha infatti avuto un valore di 11,1 miliardi di euro, contro i 6,8 miliardi della Francia.

Non esiste, però, solo la doppia opzione Francia-Germania. Il Corridoio 5 significherebbe un maggiore ancoraggio dell'economia italiana all'Est Europa. La Russia, per quanto non valga più di un paio di punti del nostro export, dimostra una notevole vivacità: per l'Istat, a maggio le nostre esportazioni sono cresciute del 27 per cento.

Il Corridoio 24, invece, permetterebbe una più profonda penetrazione nelle economie del Nord Europa e consentirebbe, grazie al porto di Rotterdam, una proiezione sui mercati globali. Anche se è ancora tutta da verificare la capacità del sistema industriale italiano di cogliere appieno le opportunità offerte dai Bric (Brasile, Russia, India e Cina), dove le nostre imprese riescono a conquistare per ora pochi spazi: secondo il rapporto Ice del 2010 le esportazioni italiane finiscono soltanto per il 2,3% in Cina, per il 2,2% in Russia e per meno del 3% in tutto il Sud America. Mercati da servire non soltanto con la produzione in loco, ma anche attraverso i terminal dei porti del Nord Europa, come Rotterdam.

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